la Repubblica, 14 marzo 2016
Ritratto di Diana Bianchedi, l’ex fiorettista che vinse l’oro a Sydney oggi direttore generale del comitato promotore di Roma 2024
È l’unica che sta in cima. Abituata ad avere orizzonti e bersaglio. Diana Bianchedi, 46 anni, è direttore generale del comitato promotore di Roma 2024. Non viene dal nulla: due ori olimpici nel Dream Team del fioretto, 5 mondiali a squadre, una laurea in medicina, un marito, ex schermitore, Gianmarco Amore, due figli, Giulia di 12 e Federico di 10. Una vicepresidenza Coni nel 2001. È lei l’eccezione italiana, in un panorama desolante dove su 45 federazioni affiliate al Coni non c’è nemmeno una donna al vertice. Ed è anche l’unica dg delle quattro città candidate (Budapest, Parigi, Los Angeles oltre a Roma).
Diana, vogliamo chiederci perché?
«Perché bisogna essere stimolate, avere voglia di buttarsi e di provarci. Mentre ancora in tanti e in tante diffidano. E poi c’è il fatto che una donna per emergere non deve mollare mai, né abbassare la guardia. A noi la vita presenta presto il conto: lavoro, famiglia, figli, genitori. E tutto non si può fare, allora cedi su qualche sogno, ti accontenti di un ripiego, se non lo fanno gli altri ti ostruisci da te. Io sono piccolina, non una giraffa, nella traumatologia certe manovre sul ginocchio non le faccio agilmente, mi aiuto, magari monto sul piede del paziente, però riesco».
Si aspettava questo incarico?
«No. Ma quando mi hanno telefonato, prima Malagò e poi Montezemolo, ho aspettato zero secondi per dare la risposta. Anche se subito dopo ho pianto tutte le mie lacrime davanti a mia figlia, che sorpresa, chiedeva: mamma, ma non avevi detto che era una cosa bella? Dirigevo un centro per la riabilitazione, Isokitenic, che ho lasciato. Lo sport mi ha insegnato a capire le priorità, da bambina ero diversa».
Ma se in 2ª liceo si è ritirata.
«Per rabbia. Studiavo a Milano dalle suore, in una scuola privata. A fine settimana dovevo partire per la mia prima gara di Coppa del Mondo, così mi sono fatta interrogare in matematica al venerdì e ho preso otto. Il lunedì altra verifica su un programma che non avevo fatto. Mi è sembrato uno schiaffo ingiusto. E mi sono trasferita in un liceo pubblico, grazie al sostegno dei miei genitori che si sono fidati di me. Sono cresciuta alla Mangiarotti. Da studentessa e da milanista al mio attivo ho anche un tema in inglese su Franco Baresi».
L’Italia reagisce bene?
«Be’ capita ancora che quando andiamo fare le visite mi chiedano se sono la traduttrice. Anche ai convegni sull’ortopedia si rivolgono a mio marito come dottore e lui: guardate che la dottoressa è lei. Ma al Cio una posizione come la mia è naturale, non c’è nessun imbarazzo. E brava Anna Riccardi, che nell’esecutivo Iaaf è stata la più votata. Io in ufficio ho metà personale femminile. Non scelgo in base al sesso, ma alle competenze, e se scelgo un’altra donna è perché sono capace di valutare quello che c’è dietro. Non lo devono spiegare a me cosa significa tornare a casa e avere tre figli da sistemare. Ecco, io non discrimino, vorrei che l’ambiente aiutasse di più i bisogni delle donne, ma so che sappiamo farci carico dell’altro. Da vicepresidente Coni, con due bimbi, non ho saltato una giunta».
Però i campioni sono refrattari a fare il salto.
«Staccarsi da quello che si è stati è difficile. Da qualcuno si diventa nessuno. I privilegi scompaiono, devi trovare un altro modo per allenarti alla vita. Tutto quello che hai fatto è bello, ma non serve più. Mi sono occupata di un programma post-carriera per gli atleti. Chiedevo: cosa farai dopo? Il direttore del marketing, era la risposta. Ah sì, e hai studiato? Ti sei dato gli strumenti ? Peccato perché uno sportivo ha le prime dieci caratteristiche che un’azienda chiede prima della competenza tecnica. Peccato che in Italia lo sport non sia considerato parte integrante della cultura. Perché il mio ricordo più bello olimpico non è legato a un successo, ma a un infortunio».
Atlanta ‘96.
«Mi ruppi il tendine d’Achille, il mio fidanzato di allora, Angelo Mazzoni, si precipitò in pedana e fu arrestato. Quando in carrozzella andai alla premiazione tutto il palazzetto applaudì e io piansi con il mio allenatore. Non per la medaglia, ma perché mi veniva riconosciuto l’impegno, la correttezza, il sacrificio».
Come va il lavoro su Roma?
«Oggi parte il censimento sulle strutture sportive scolastiche in modo da sapere quali sono agibili per far allenare le squadre. Per le perizie tecniche ho chiamato una ventina di persone tra architetti e ingegneri. Ho chiesto: quanti di voi hanno seguito un’Olimpiade? Si è alzata una sola mano. In più l’aveva vista in tv. Ho chiesto ai 15 presidenti dei municipi di indicarmi tre cose urgenti e fattibili che servono alle loro circoscrizioni: tipo un playground, il rifacimento di aiuole, da alcuni ancora attendo risposte. Mi aspettavo forse più entusiasmo e più velocità. Io appena ho visto che esistono altalene per disabili, da mettere nei parchi, ho subito chiamato Pancalli, presidente del comitato Paralimpico».
Una che è stata in squadra con Trillini e Vezzali è abituata bene.
«Non sono persone che si accontentano. Valentina la trovi in palestra di notte a cercare di mettere a segno l’ultima stoccata con le ragazzine. Ma qui trattasi di praticità, di buttare un occhio dove serve, di credibilità. Ho frequentato sei villaggi olimpici, so dove sta la mensa, so che ai controlli sicurezza si perdono ore. Sa quante volte alle gare di scherma mi sono arrabbiata perché l’apparecchio che segna le stoccate non era rivolto verso il pubblico? È così che vogliamo rendere fruibile la disciplina? Società e sport devono parlarsi, intendersi, comunicare».
Los Angeles ha calato 52 assi dello sport come testimonial.
«Grandissimi campioni. Ci hanno messo la faccia. Ma io sono più massaia, a me interessa chi s’impegna ogni giorno».
Chiede fiducia?
«Io sono di Milano, sono arrivata a Roma ad allenarmi perché cercavo la qualificazione olimpica, separandomi dopo 11 anni da un fidanzato che non si era comportato bene. Dovevo starci un mese, sono ancora qui, per amore, perché sono nati i miei figli. Ogni giorno attraverso una parte di città e di strade costruite per Roma ‘60, segno che le Olimpiadi ovunque lasciano qualcosa come a Torino. Se alle donne dico di buttarsi di più, all’Italia chiedo di credere nella bellezza dei Giochi. Non datemi un voto sulla fiducia, ma valutate progetto e lavoro. Lo sport mi ha insegnato le sfide e a rispettare i meriti. E io ho sempre attaccato, da piccolina che voleva crescere».