la Repubblica, 14 marzo 2016
La storia di Jesse Owens, il nero che a Berlino vinse l’oro alla faccia di Hitler e di Roosevelt, ora in un film
Come sarebbe andata a finire lo sapevano già tutti, ma quando Jesse passa il filo di lana per vincere la sua quarta medaglia d’oro l’applauso liberatorio scatta lo stesso. La storia di Jesse Owens, il ragazzo nero che partì da Cleveland, Ohio e sbancò l’Olimpiade nazista l’hanno raccontata in tanti, le immagini dei suoi trionfi immortalate da Leni Riefenstahl sono patrimonio del cinema mondiale, ma nessuno l’aveva illustrata da un’angolatura così particolare come ha fatto il regista Stephen Hopkins.
‘Race’, nelle sale americane dallo scorso 19 febbraio (in Italia arriverà il 31 marzo), narra vita e vicende di Owens senza che lui ne sia il vero protagonista. Un discreto successo di pubblico (15 milioni incassati finora), questo biopic sportivo-politico ci racconta uno spaccato (poco conosciuto al grande pubblico) dell’America del New Deal, combattuta tra la voglia pragmatica di imporre il suo primato nello sport e quella idealista di boicottare i Giochi voluti da Hitler (e Goebbels) per sancire la superiorità della razza ariana. Certamente non un capolavoro, ma un onesto film con un suo ritmo e una storia (ovviamente) godibile.
Sono due gli alter ego di Owens attorno ai quali si sviluppa il film. Il primo è Lawrence ‘Larry’ Snyder (interpretato da Jason Sudeikis, per molti anni star di Saturday Night Live), il bravissimo coach, depresso e talvolta ubriacone, che lo convince a pensare solo a correre, ad avere come unico obiettivo quei dieci maledetti secondi su una pista rossa. Poco gli importa se Jesse dovrà sacrificare vita personale e affetti lontani (una figlia avuta da una donna che ama ma non ha sposato), se dovrà scontrasi con un razzismo becero e ostentato, se avrà fino all’ultimo dubbi (alimentati da un leader afro-americano) sul partecipare o meno alle Olimpiadi. Larry vuole quelle medaglie disperatamente, le desidera più dello stesso Owens, perché da atleta, dodici anni prima, le ha solo sfiorate. Il secondo è Avery Brundage (un grande Jeremy Irons), il padre-padrone dell’atletica Usa (e un paio di decenni dopo del Comitato Olimpico Internazionale), spregiudicato fino al cinismo, uomo d’affari che vince – dopo un viaggio in Germania dove viene trattato con tutti gli onori (con tanto di accordo per appalto privato per costruire l’ambascia del Reich a Washington) – la battaglia contro il boicottaggio e vende (in parte) l’anima a Goebbels (che l’attore tedesco Barnaby Metschurat riesce a rendere particolarmente e verosimilmente odioso). Lui e Owens si sfiorano soltanto in un paio di occasioni, l’ultima quando Brundage (ricattato dal ministro della Propaganda nazista) decide che i due atleti ebrei della 4X100 – gli Stati Uniti avevano scelto di partecipare solo con la certezza che non ci sarebbero state discriminazioni razziali – non avrebbero corso la finale della staffetta. Sport e politica, storia e sport si intrecciano nell’arco di tutto il film, scandito anche – e qui siamo già a Berlino nei giorni dei Giochi – dalla personale battaglia di Leni Riefenstahl per immortalare la bellezza delle Olimpiadi naziste (vittorie di Owens comprese) a costo di litigare con il perfido Goebbels.
Nel finale, tra le immagini delle vittorie allo stadio olimpico (non le migliori scene di sport viste sul grande schermo) e il ritorno a casa (e ad un’amara realtà) il protagonista diventa Jesse. Per lui una grande parata a New York, con quasi un milione di persone a salutare “l’eroe di Berlino”; per lui anche l’umiliazione patita al mitico hotel Waldorf Astoria quando – per la festa in suo onore – viene bloccato e cortesemente, ma fermamente, invitato ad usare la porta e l’ascensore di servizio”: quelli riservati ai servi e ai ‘nigger’.
La storia, quella vera, ci dice che il presidente (democratico) Franklin Delano Roosevelt non si complimentò mai con Jesse Owens. Le elezioni per la Casa Bianca (dove verrà rieletto per la seconda volta) erano alle porte e i voti degli Stati sudisti (e ancora profondamente razzisti), allora tutti a maggioranza democratica, erano troppo importanti. Stringere la mano a un nero non era cosa da fare e Roosevelt non la fece, forse se anche avesse voluto – il suo staff glielo avrebbe proibito. Non lo volle, come si rifiutò di invitarlo alla Casa Bianca. “Hitler non mi snobbò, fu Franklin Delano Roosevelt a snobbarmi”, raccontò dopo anni Jesse Owens ricordando l’umiliazione del Waldorf Astoria e il grande sgarbo del presidente del New Deal. Le sue memorie di Berlino (con centinaia di tedeschi che lo fermavano per aver un autografo) erano ben diverse da quelle della propaganda ufficiale: che fosse quella nazista o quella americana.