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 2016  marzo 14 Lunedì calendario

«Vota la mamma». La Meloni tra ripensamenti e tradimenti

E allora vota per la mamma: esiste forse uno slogan più semplice, più diretto e più emotivamente efficace?
Giorgia Meloni voleva, non voleva, sperava, disperava, per la verità non s’è mai capito bene se sì, o no, o forse, e ancora oggi vai a sapere se e come verrà accolto questo suo “gesto di amore e responsabilità” in forma di candidatura a sindaco di Roma.
Senz’altro la si può capire. Ma anche i giornalisti politici, nel tempo contraddittorio dell’intimate politics, chiedono comprensione rispetto ai test di gravidanza, agli impegni della gestazione, ai tempi della nascita, a quelli dell’allattamento e dello svezzamento, da far coincidere, oltretutto, con le scadenze della capitale e magari pure con le magagne del centrodestra. Che come si è visto ieri, ma anche prima, di certo non mancano.
A ottobre Meloni, che insieme a un indomito caratterino deve aver maturato negli ultimi anni anche una certa considerazione di sé, chiese 72 ore di silenzio stampa per una “riflessione strategica di vita”. A onor del vero l’esito di questa non fu così chiaro, ma forse non dipendeva solo da lei; né d’altra parte Berlusconi, Salvini, Alemanno, Storace e altri, non proprio rinomati per la loro discrezione, per una volta si sentirono di impicciarsi.
L’annuntio vobis – sono incinta – arrivò con un selfie alla fine di gennaio, intorno al Family day. Come sempre in Italia quando due entità ormai del tutto indefinibili quali il pubblico e il privato ballano a cuor leggero, ci furono delle polemiche, al tempo stesso inevitabili e pesanti. Dall’Africa, dove si trovava in visita di Stato, il premier Renzi fece pervenire a Meloni un mazzo di rose e di lilium.
Per cui, si poteva pensare, addio candidatura. O almeno lei la mise in questo modo: «Premetto che una gravidanza non impedisce a una donna di vivere pienamente la sua vita e il suo impegno; non è né deve essere vissuta come un ostacolo, mai. Ma non c’è dubbio che una campagna elettorale che si concluderebbe al settimo mese per un mandato che ti impegna anima e corpo mentre nasce il tuo primo figlio, ti porta a pensare che non sia la strada giusta».
Rivista con gli occhi di oggi, con quel frasario vagamente politichese e i verbi al condizionale, la formulazione suona molto meno netta di come allora si precipitarono a intenderla Berlusconi, Salvini, Storace e compagnia bella.
C’era comunque un’ultima parte che oggi vale la pena di riportare: «Io – proseguiva Meloni enfatizzando il pronome preferito di questa stagione – sono disponibile a tutto per la mia città, che amo, a fare il capolista o qualunque altra cosa. Ma potrei candidarmi solo se non ci fosse nessun’altra soluzione possibile, solo come extrema ratio».
Forse il latinismo anticipava l’ideona meloniana di Rita Dalla Chiesa, forse andava a schermare lo scalpitante Marchini, forse l’ex Cavaliere già stava per farsi venire in mente l’ideona di Bertolaso, forse chissà che altro ancora.
Ma di sicuro da quel momento è cominciata una ridda insieme ridicola e drammatica di pentimenti, tradimenti, affondamenti che nessuna persona ragionevole è riuscita fin qui non solo a decifrare, ma anche solo a seguire. Dopo le primarie, dopo le gazebarie e le “cazzarie”, come le ha designate Storace, cui non manca il gusto e l’estro della semplificazione, nel giorno che doveva essere di Bertolaso, Meloni ha stabilito che c’erano le condizioni dell’extrema ratio.
La cosa stramba e al tempo stesso straordinaria è che la campagna elettorale con il pancione, inedito assoluto, almeno in teoria può far raccogliere al centrodestra parecchi di quei voti che i suoi stessi protagonisti hanno dissennatamente disperso.
Vota la mamma, dunque, è lì che si torna. Tutto del resto torna nell’era delle emozioni. Ci mancava pure questa, d’accordo, ma in un modo o nell’altro in politica contano i voti.
(Roma comunque qualche problemino ce l’ha e un sindaco a tempo pieno ci vorrebbe proprio)