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 2016  marzo 11 Venerdì calendario

La rivoluzione storiografica di Luca Lotti

Secondo Luca Lotti, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio e autore di un memorabile articolo sull’Unità di ieri, dedicato alle incolpevoli “Donne che fecero l’Italia”, “settant’anni fa… la seconda guerra mondiale non era ancora finita”. Una rivelazione clamorosa, destinata a rivoluzionare la scienza storiografica (non per nulla quella volpe del direttore D’Angelis l’ha sbattuta in prima pagina): nel marzo 1946 la seconda guerra mondiale, che tutti ingenuamente credevamo terminata in Italia il 25 aprile 1945, detto non per nulla “il giorno della Liberazione”, era in pieno corso. Al momento, non è ancora dato sapere quando poi sia finita, la guerra mondiale. Ma il professor Lotti – noto storico contemporaneo che vanta un diploma al liceo scientifico Pontormo di Empoli e una laurea in Scienze di Governo e dell’Amministrazione alla Facoltà Cesare Alfieri di Firenze – ce lo farà sapere al più presto, al termine delle sue ricerche d’archivio, dall’alto delle sue deleghe all’“Informazione, Comunicazione, Editoria, Pianificazione” e soprattutto alla “Promozione e svolgimento di iniziative per le Celebrazioni del 70° anniversario della Resistenza e della Guerra di Liberazione” (che, detto per inciso, hanno già avuto luogo lo scorso anno, alla presenza di Mattarella, di Renzi e dello stesso Lotti i quali – ancora ignari delle successive risultanze – non si sa bene cos’abbiano commemorato).
Nell’attesa, case editrici provvederanno ad aggiornare i manuali di Storia Contemporanea, tutti viziati dalla retrodatazione della fine della guerra, sostituendo il 25 aprile 1945 con “data in corso di accertamento”. Già modificate invece le antologie di letteratura con l’inserimento, alla voce Jorge Luis Borges, dell’ormai celebre Poema a la amistad declamato da Matteo Renzi nella lectio magistralis all’università di Buenos Aires e attribuito all’ignaro poeta argentino: in realtà è opera di autore anonimo, ma se lo dice Renzi vale il principio dell’usucapione in conto terzi. Del resto il premier è uomo molto colto: in 41 di vita ha già firmato sette libri, anche se non si sa bene chi li abbia scritti. Uno, con interventi di Pistelli, Violante, Prodi e soprattutto Carlo Conti, s’intitolava Ma le giubbe rosse non uccisero Aldo Moro. La politica spiegata a mio fratello; un altro Tra De Gasperi e gli U2. I trentenni e il futuro; un altro ancora –La mi’ Firenze – si avvaleva dell’apporto di Giancarlo Antognoni e Cesara Buonamici, cui seguì Stil novo. La rivoluzione della bellezza tra Dante e Twitter, orgoglio e vanto degli eredi Alighieri.
Ora si attendono “La Divina Commedia. Il #cambiaverso dell’Aldilà tra Verdini e Facebook” e “De vulgari eloquentia. La rottamazione della retorica tra Rondolino e Whatsapp”, sempre a riprova della sua robusta cultura umanistica. Appena più incerta, invece, quella costituzionale, che gli fece dire come la riforma della Costituzione fosse attesa spasmodicamente dagli italiani “da 70 anni”: cioè dal 1946. In pratica, due anni prima che la Carta entrasse in vigore (1° gennaio 1948), anzi ancor prima che venisse eletta l’Assemblea Costituente incaricata di scriverla (2 giugno 1946), il popolo già rumoreggiava invocandone a gran voce la riforma. Ora però, alla luce delle scoperte di Lotti, si potrebbe addirittura concludere che i costituenti scrissero la Carta sotto i bombardamenti, senza neppure sapere se l’Italia fosse ancora una monarchia o fosse già una Repubblica: tirarono a indovinare, azzeccando prodigiosamente l’esito del referendum.
Ieri, in un raro sprazzo di lucidità, la ministra Boschi, alla presenza degli insigni costituzionalisti favorevoli alla sua riforma (lei), ha osservato che il referendum costituzionale di ottobre “è un appuntamento che non può essere sottovalutato, perché il fronte del No è molto esteso e autorevolmente rappresentato”. Dev’essersi guardata intorno, o deve aver visto le firme sotto gli appelli del No. Ma è stato un attimo, poi la ministra è subito guarita, tornando nei panni di colei che due anni fa insolentì come “soloni” e “professoroni” i migliori costituzionalisti italiani, da Zagrebelsky a Rodotà, da Pace alla Carlassare, che paventavano la “svolta autoritaria” ora in pieno corso. Ora, secondo la nota giureconsulta, bisogna “ribaltare alcune false verità che rischiano di fare presa”. Tipo che non eleggeremo più né i deputati né i senatori: circostanza in verità piuttosto seccante per l’elettore medio, specie di un partito chiamato spiritosamente “democratico”. Ma per fortuna è già pronto lo slogan del Sì: “La parola d’ordine è semplicità” (si potrebbe usare come inno Tu semplicità dei Matia Bazar). E anche il leitmotiv: “Si confronteranno due idee dell’Italia: quella di chi vuole un paese che resta così com’è; e la nostra, espressione di un paese che ha voglia di correre, di andare veloce, di proiettarsi nel futuro” (se sapesse cos’è il futurismo, potrebbe chiedere a prestito qualche onomatopea dagli eredi Marinetti: Zang, frrrrr, taratatatatata, trak trak, pic pac pum tumb, grang grang, crooc craaac…).
Dinanzi a cotali pozzi di scienza, vien da domandarsi se non li stiamo un po’ sopravvalutando. Com’è possibile che tanta gente, anche alfabetizzata, prenda sul serio questa combriccola di provincialotti scesi a valle, cazzari e dilettanti allo sbaraglio, tremando alla sola idea di contraddirli e dipingendoli come “senza alternative”. Davvero, se dovessero tornare sugli alberi da dove son venuti, non troveremmo nessuno da metterci al posto? Di Mussolini si doveva avere paura. Di Craxi, di Andreotti e di B. si poteva. Di questi no. Quando cominceremo a ridergli in faccia, sarà sempre troppo tardi.