ItaliaOggi, 10 marzo 2016
La guerra di Putin ai software americani
Mosca dichiara guerra all’egemonia Usa nel software. E alza una cortina di ferro per le multinazionali che intendono fornire programmi informatici a tutte le pubbliche amministrazioni della Federazione russa, enti locali inclusi. Dal primo gennaio, la preferenza negli acquisti viene data per legge alle società russe, attraverso un «divieto di utilizzare software provenienti da paesi stranieri per fabbisogni pubblici e statali», qualora sussistano applicativi equivalenti nel Paese. In pratica, i software acquistabili sono solo quelli inseriti in un apposito «registro dei software nazionali». Per essere inseriti in questo registro, i diritti di utilizzo dei programmi, a livello mondiale, devono appartenere a soggetti russi o a prevalente controllo russo, siano essi società, enti o persone fisiche. Attenzione, però: a tal fine le società russe, controllate da gruppi stranieri, non vengono considerate russe. Di conseguenza, se le aziende straniere vogliono competere in gare pubbliche, dovranno fondare società a prevalente partecipazione russa, in cui detenere partecipazioni di minoranza. Ad alzare il muro protezionistico è stata la legge federale 188/2015, che modifica una precedente norma russa, la legge federale 149/2006 sull’information technology. Poi, con un decreto governativo (n. 1.236/2015), il Cremlino ha ulteriormente ristretto il range. Ora, va detto che stabilire l’equivalenza tra software non è roba da poco. Alla cosa sta lavorando un comitato tecnico, al cui tavolo siede anche il player russo Kaspersky, che produce i più importanti firewall al mondo. Resta il dato che, per la prima volta nel mercato globale della web economy, spunta una nuova tendenza: il protezionismo. E non finisce qui.
Mosca ha rivoluzionato anche la normativa sulla privacy (legge federale n. 152/2006): da settembre è in vigore la legge federale 242/2014, che, con un codicillo, ha imposto l’obbligo a tutti i soggetti che raccolgono dati personali di cittadini russi, di trattarli solo mediante apposite “strutture” (data center) situate sul territorio della Federazione. Ciò significa che i server devono essere in Russia. E i cloud devono essere localizzati nella Federazione mediante provider russi. Anche qui siamo a una rivoluzione autarchica: per la prima volta al mondo un Paese impone la localizzazione obbligatoria sul suo territorio del trattamento dei dati personali dei suoi cittadini.
I risvolti di questa norma sono enormi, perché ha estensione sovranazionale. Infatti, se un operatore italiano di e-commerce vende on line beni e servizi ai russi, deve sottostare al vincolo anche se non ha stabile organizzazione in Russia. Pena l’iniziale iscrizione in un registro dei trasgressori e, in caso di mancato adeguamento in tempi dati, l’oscuramento del sito. Cioè, stop immediato all’attività. I controlli ex officio da parte del Roskomnadzor, l’ente regolatore russo della privacy e delle comunicazioni (equivalente, in uno, dei nostri garanti della privacy e delle comunicazioni) sono già iniziati.
C’è poi il nodo fiscale. La stretta all’utilizzo dei dati personali porterà all’emersione del fenomeno web economy. Che presto sarà oggetto di imposizione fiscale più severa, per via di nuove regole allo studio del Cremlino, sia sotto il profilo delle imposte indirette che dell’Iva. Oggi, infatti, l’operatore straniero di e-commerce non assolve l’Iva doganale russa, perché merci e servizi diretti al consumatore finale non fanno dogana. Col trattamento in loco dei dati dei clienti russi, Mosca tapperà il buco; le info potranno finire in un data base che renderà tracciabili gli acquisti on line.