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 2016  marzo 10 Giovedì calendario

Alla Central Station di New York da cento anni l’orologio va avanti di un minuto. Riflessioni a margine

Tra un orologio fermo e un orologio che funziona ci sono varchi temporali insospettabili, logica e tempo fanno fatica a incontrarsi, come sa chiunque cerchi di giustificare un colpevole ritardo con i deboli strumenti della ragione. Un orologio rotto alla fermata del tram o in una piazza incrina una certezza condivisa, mette in crisi una convenzione civica e soprattutto rende vana una conquista secolare. Per questo Repubblica.it ha chiesto ai lettori di inviare foto degli “orologi di strada” che giacciono inutili come quello della Cattedrale sommersa di Debussy.
Ma tra un orologio fermo e uno che funziona c’è per esempio quello della Grand Central Station di New York, dove si viaggia nel tempo con un anno e mezzo di ritardo. È il risultato della somma nei 103 anni di vita della stazione del gate minute, il minuto di ritardo che c’è tra l’ora indicata sui tabelloni, l’ora indicata dall’orologio della Grand Central Station e l’ora reale della partenza del treno. Da oltre cent’anni un minuto rubato per evitare ai passeggeri in preda al panico di travolgersi o travolgere gli altri in una disperata corsa al binario. Ma forse nelle rassicuranti litanie dei capistazione slowly slowly, piano piano, si nasconde qualcosa di più: l’illusione di avere potere sulla cosa che più guardiamo scorrere ma meno controlliamo, il tempo. Si avverte una insospettabile tenerezza calvinista nella tradizione newyorchese di concedere quel minuto in più per non mancare l’occasione, per allontanarsi o raggiungere, in ogni caso per non restare a piedi. Un minuto che nella massa di minuti inutili già trascorsi ma spesso malvissuti, diventa molto più prezioso. E il fatto che quella di New York sia una decisione pubblica riporta il tempo al suo ruolo, pubblico appunto.
Anche se i primi ad avere avuto problemi con lo scorrere del tempo furono i filosofi a partire da Eraclito (“tutto scorre” presuppone che scorra nel tempo), è nell’età moderna che si intreccia con la questione della puntualità, come rileva il classico di Carlo M. Cipolla Le macchine del tempo o il più recente e sorprendente L’ordine del tempo di Max Engammare pubblicato da Claudiana. È stato con il Rinascimento e con i primi orologi pubblici che tutto si è fatto più complesso e si è passati dal contare il giorno in horae del culto a ore civiche. Il tempo si è ridisegnato e, con esso, la nostra visione di noi stessi. E infatti, in ordine sparso: Immanuel Kant, su cui si dice l’orologio di Königsberg si regolasse basandosi sulla ossessiva puntualità della passeggiata del filosofo, fece del tempo l’unica categoria insieme allo spazio, preliminare a ogni possibile conoscenza. Erasmo, altro caso: ossessionato di perdere tempo inutilmente e fare tardi a lezione. O Rousseau, fuggito dalla calvinista Ginevra perché, totalmente incapace di puntualità, rientrando in città trovò le porte chiuse. Non occorre arrivare fino a Essere e tempo di Heidegger o alla relatività di Einstein per sapere ciò che sappiamo da sempre: che doppio è il volto di Cronos, oggettivo (quello degli orologi) e soggettivo (quello dell’arte e della letteratura). E che in questa lotta tra reale e percepito si srotola la storia umana. Dai meravigliosi ingranaggi in cui si perde Hugo Cabret, manutentore di orologi alla stazione di Parigi, all’orologio da tasca del Bianconiglio di Alice in Wonderland, alle pendole che ballano con la Bella e la bestia di Disney, passando per i quadranti sciolti al sole dei mondi finalmente senza tempo di Dalí. Naturalmente tutto resta in piedi in un’idea di tempo lineare, convenzione accettata come l’ora di Greenwich (con l’eccezione della vicina Oxford, che si ritiene depositaria del fuso orario corretto di cinque minuti). E senza sollevare il dubbio di Zenone, pericolosissimo per chi voglia prendere un treno, sul fatto che Achille possa mai raggiungere la tartaruga partita in anticipo nella gara poiché in ogni singolo istante la loro distanza sarà sempre tale. E senza scomodare metempsicosi, samsara ed eterno ritorno, godiamoci quel minuto in più regalatoci dalla Grand Central per trasformare il tempo delle nostre giornate da un infernale Clockwork Orange in un leggero Rock Around the Clock.