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 2016  marzo 10 Giovedì calendario

In morte di George Martin, il quinto Beatles

Ernesto Assante per la Repubblica
Sir George Martin, il produttore che ha messo la sua firma su tutti gli album dei Beatles, è morto martedì scorso a Londra. Aveva novant’anni, la maggior parte dei quali passati a creare, scrivere, suonare, dirigere musica. Nella sua lunga carriera aveva lavorato nel dipartimento di musica classica della Bbc, nel cinema e nella televisione, con grandi attori come Peter Sellers e Peter Ustinov, con musicisti come Jeff Beck, Elton John, i Dire Straits e gli Who. Ma, per ricordarlo, diremo tutti per semplicità che è stato il “quinto Beatle”, e aggiungeremo, perché è vero, che è stato uno dei più grandi produttori di sempre. Ma entrambe le definizioni non basterebbero a spiegare la grandezza della sua opera, la potenza inaudita delle sue invenzioni, l’importanza assoluta del suo lavoro, il contributo che ha dato alla cultura dei nostri tempi. È certamente vero che i Beatles devono a lui molto e, come ha scritto ieri Paul McCartney, è stato per lui e gli altri “un secondo padre”: «Se c’è qualcuno che meritava il titolo di quinto Beatle era lui. Dal giorno in cui ci fece firmare il primo contratto discografico all’ultimo giorno in cui l’ho visto è stato la persona più generosa, intelligente e musicale che abbia avuto il piacere di conoscere». «Un gigante della musica», ha twittato il premier britannico David Cameron.
Ma non basta, perché Sir George Martin è stato in realtà uno dei più grandi musicisti del Novecento. E non solo perché ha scritto, arrangiato, eseguito grande musica, perché ha spinto i Beatles oltre i loro limiti o altre volte ha valicato i limiti imposti all’epoca dalla tecnologia spinto dai Beatles stessi, ma soprattutto perché ha sostanzialmente contribuito a creare e a perfezionare l’uso di uno strumento musicale completamente nuovo: lo studio di registrazione.
Martin, assieme ai Beatles, ha trasportato la musica moderna registrata, che fino ai primi anni Sessanta altro non era che la “fotografia” sonora di quello che accadeva veramente davanti ai microfoni degli studi di registrazione, nell’universo del possibile facendola uscire da quello del reale. Con i Fab Four a Abbey Road ha creato suoni che, all’epoca, non potevano essere riprodotti dal vivo, sonorità che non erano realmente mai state suonate, manipolando, tagliando, montando, ricostruendo, creando con i nastri, i registratori, i delay, i distorsori, gli echi e i riverberi. Creando, non registrando, facendo nascere oggetti sonori prima inesistenti. Provate ancora oggi ad ascoltare Tomorrow never knows da Revolver, agosto 1966, poco meno di cinquanta anni fa: tutto quello che Lennon aveva immaginato si trasforma in suono, trovando forma in una voce raddoppiata attraverso una macchina appena creata ad Abbey Road e filtrata attraverso il Leslie di un organo Hammond per realizzare il desiderio di John di avere una voce «come quella del Dalai Lama, più migliaia di voci di monaci tibetani salmodianti sulla vetta di una montagna». E poi, per la prima volta nella musica pop, registrazioni tagliate e messe in loop per creare uno straordinario effetto circolare, voci modificate, ritmi rallentati, strumenti manipolati, al fine di accompagnare l’ascoltatore in una straordinaria esperienza psichedelica. Se John Cage ha aperto le porte alla libertà, George Martin ha fatto passare la gente attraverso quelle porte, trasformando, con l’inventiva dei Beatles, l’avanguardia in pop, permettendo a chiunque sia venuto dopo di lui di fare altrettanto e di più, fino ad arrivare ai nostri giorni. La “smaterializzazione” della musica è iniziata lì, nello Studio 3 di Abbey Road, con John, Paul, George e Ringo a inventare suoni che non avevano bisogno di strumenti per essere suonati, e George Martin a trasformarli in realtà.
È stato comunque il “quinto Beatle”, con loro ha condiviso sogni e speranze, successi e avventure, visioni e meraviglie, in quegli studi di Abbey Road trasformati nel palazzo reale della musica rock. Dopo la fine dell’avventura dei “favolosi quattro”, con Paul McCartney ha mantenuto un rapporto strettissimo fino ai nostri giorni, lavorando a molti dei suoi album solisti, è stato grande amico ed estimatore di Ringo, il primo a twittare la notizia ieri («Uno dei più raffinati batteristi di sempre», aveva detto di lui Martin), mentre con Lennon e Harrison ha avuto rapporti più difficili (furono John e George a preferirgli Phil Spector per Let it be), ma ha coltivato l’eredità beatlesiana cercando spesso di riportarla all’attualità, come ha fatto con lo spettacolo Love del Cirque du Soleil o, sempre assieme al figlio Giles, nel lavoro di rimasterizzazione dell’intera opera del quartetto di Liverpool.
Ma anche se volessimo dimenticare tutto questo, basterebbe il fatto che Martin, a differenza di Dick Rowe che aveva rifiutato la band dopo l’audizione alla Decca, decise di mettere i Beatles sotto contratto perché, pur trovandoli per molti versi “orribili”, ne aveva colto le potenzialità. Come Cristoforo Colombo sapeva che qualcosa, da qualche parte aspettava di essere “scoperta”, e il nuovo mondo su cui Martin mise piede, la leggendaria Pepperland beatlesiana, è per molti versi il mondo sul quale noi ancora oggi, felicemente, mettiamo i nostri piedi.

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Mario Luzzatto Fegiz per il Corriere della Sera

Da Paul McCartney al premier Cameron il mondo intero piange George Martin. È morto a 90 anni l’uomo che seppe trasformare il talento dei Beatles in un business planetario, facendo assurgere una semplice band a colonna sonora di un’epoca.
Fra i suoi interventi più incisivi l’allontanamento del batterista Pete Best dalla formazione, sostituito da Ringo Starr. «Per me era un secondo padre» ha dichiarato affranto Paul.
Martin interveniva in studio direttamente. Sua l’idea di realizzare «Yesterday» e «For No One» con una pennellata di musica classica; sua l’idea di utilizzare dei loop (nastri a circuito chiuso) per creare sonorità insolite in «Revolver» e «Sgt. Peppers».Era nato a Londra il 3 gennaio 1926. Entrò alla EMI nel 1950 e divenne prima produttore per l’etichetta Parlophone e poi capo della stessa. Fu lui a portare i Beatles nella celebre compagine discografica. Martin era pacato e intelligente, dotato di talento e intuizione. Fra i suoi «miracoli» il restauro dei nastri originali dei Fab Four per il cd e il digitale. George, dopo i primi lusinghieri risultati dei Beatles, si aspettava una gratifica che non venne. Così dopo aver scoperto che la EMI aveva incassato grazie a lui 2.200.000 sterline si licenziò e fondò una sua compagnia, la AIR Associated Indipendent Recording.
Il percorso artistico dei Beatles con il produttore fu graduale. Dapprima John e Paul registravano con le loro chitarre acustiche. Poi, con «Yesterday», si optò per un’orchestrazione con numerosi strumenti aggiunti. Nel 1967 l’affiatamento tra la band e Martin si raffreddò e le registrazioni di «Get Back» furono affidate a Phil Spector.
La sua attività non si limitò ai Beatles: fu produttore di molti artisti fra cui gli America e Neil Sedaka. Lavorò, dopo lo scioglimento dei 4 con Ringo Starr e Paul Mc Cartney. I suoi studi di Monteserrat divennero i preferiti dei Dire Straits e perfino dei Rolling Stones.
Uomo di straordinaria discrezione, pur avendo condiviso la crescita musicale del celebre quartetto, scelse un ruolo di testimone e non di protagonista. Non alimentò mai le polemiche che accompagnarono la fine dei Beatles.
Insomma Sir Martin era la personificazione del gentleman britannico, riservato custode di tanti segreti dello star system musicale mondiale.

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Marco Molendini per Il Messaggero
L’hanno chiamato il quinto Beatles (ma quanti sono i quinti Beatles?), George Martin per la verità è stato qualcosa di più e qualcosa di meno. Di meno, perché i Fab Four sono stati solo una parte, pur importante, della sua storia musicale. Di più, perché senza la saggezza, la cultura musicale, l’estro di quel mancato solista di oboe che da ragazzo sognava di suonare il piano come Rachmaninoff, forse i Beatles non sarebbero diventati quello che sono stati. E la musica pop non avrebbe scoperto così presto il valore della figura del produttore, l’uomo saggio dietro le quinte che ha caratterizzato la musica realizzata nei decenni successivi. Insomma, tanto per dirna qualcuna: senza George Martin, Yesterday e Eleonor Rigby sarebbero state incise senza il loro sublime accompagnamento di archi (Paul era contrario), Please Please Me sarebbe stata una ballad, A day in Life non avrebbe avuto quel dissonante intermezzo orchestrale, in Sgt. Pepper non ci sarebbe stato l’inquietante sottofondo psichedelico. Le canzoni dei Beatles sarebbero state meno sorprendenti e geniali. Perché Lennon e McCartney non avrebbero avuto a chi rivolgersi per soddisfare la propria curiosità musicale, riempire il loro vuoto culturale e poi dare corso alla voglia di sperimentare. Volevano sapere: chiedevano di Ravel, si incuriosivano a Stockhausen (Tomorrow Never Knows, che faceva parte di Revolver, è un pezzo influenzato dal musicista tedesco).
E ora che Martin se ne è andato, alla veneranda età di 90 anni, non si può non tornare su quella fantastica storia che ha segnato l’intera vicenda della più celebrata delle band (con l’eccezione dell’intervento rivoluzionario dei muri di suono di Phil Spector su Let it be). Quando Brian Epstein, nel febbraio del 62, portò il provino dei suoi ragazzi alla Emi, Sir George (perché anche lui, figlio di un falegname dei sobborghi londinesi, è diventato baronetto di sua Maestà per meriti musicali), allora responsabile della Parlophone, rimase perplesso: i due pezzi (Your Feets Too Big di Fats Waller e Love Me Do) gli sembravano rozzi. Ma l’uso delle armonie e delle voci gli facevano intuire qualcosa di interessante in un momento musicale di grande movimento (anche lui, pochi giorni prima, aveva pubblicato con lo psudonimo di Ray Cathode un 45 giri con due pezzi dance, Time Beat e Waltz in orbit).
Decise che il batterista andava cambiato (il povero Peter Best) e fece incidere di nuovo Love me do. Così iniziò la storia. Una storia breve, ma che dura ancora oggi. Una storia non sempre rose e fiori. Perché nel quartetto, mano a mano che cresceva il successo, le dinamiche diventavano più agitate. E, se Paul era in naturale armonia con George (i due hanno collaborato anche dopo e ieri Macca, commosso, lo ha definito un secondo padre), John lo era sicuramente meno. Tanto da ridimensionarne rabbiosamente il ruolo scrivendo a Paul nel ’71: «La gente chiede che cosa ha fatto George per noi, mi viene da rispondere: ma che cosa fa adesso?». Martin lo definì schizofrenico. E John confermò, ribaltando le proprie parole: «Ci ha trasformati in quello che siamo diventati».
Si, Sir George è stato l’uomo capace di dare ordine a quella grande esplosione di creatività musicale, come quando Lennon volle unire due diverse take di Strawberry Fields Forever di diversa tonalità. Cosa che Martin fece usando macchinari a più velocità, con un risultato miracoloso, visto che quel salto nel disco è assolutamente impercettibile. Dopo lo scioglimento della band, George Martin è diventato l’uomo che ha curato le numerose riedizioni beatlesiane. Ma ha fatto anche tante altre cose, dal Goldfinger cantato da Shirley Bassey, al primo album solista di Jeff Beck, Blow my blow, al rifacimento per Elton John di Candle in the wind per Lady D, alle collaborazioni con gli America, Peter Gabriel, Dire Straits, Sting, e con jazzisti come Stan Getz e Ella Fitzgerald. Eppure il suo nome resterà sempre legato alla grande storia dei Beatles. E, infatti, a dare l’annuncio della sua scomparsa è stato un affettuosissimo tweet di Ringo: «Pace e amore... George ci mancherà».