Avvenire, 9 marzo 2016
Così la Turchia fa business coi migranti
Con una mano la Turchia allunga il cappello, sperando che l’Ue contribuisca a sostenere le spese per l’assistenza dei profughi turchi. Con l’altra Ankara fa i conti di quanto la crisi siriana stia dando una mano al prodotto interno lordo. Strano a dirsi, ma alla Turchia tutto sommato la guerra conviene.«Ci sono abbastanza elementi per sostenere che le spese sostenute per accogliere i 2,6 milioni di rifugiati sono uno dei fattori chiave dietro la positiva sorpresa riguardante la crescita economica nel 2015». A sostenerlo è Muammer Komurcuoglu, economista della banca d’affari Is Investment. Il governo di Erdogan, infatti, non si occupa di tutti i 2,6 milioni di profughi siriani. Secondo gli ultimi dati delle agenzie Onu, nei 22 campi profughi vi sono circa mezzo milione di persone. In altre parole oltre due milioni di profughi sono fuori dai campi e hanno trovato alloggi autonomamente.Il sottinteso è che Erdogan in realtà non avrebbe neanche bisogno di tutto il denaro che da mesi si fa promettere dall’Unione europea. Prima una tranche da 3 miliardi (non ancora bonificata ad Ankara) ora altri 3 miliardi oltre a svariati accordi e agevolazioni che fanno salire di molto il bottino del governo turco. A tal punto che nelle ultime settimane poliziotti turchi si recano regolarmente presso organizzazioni non governative, associazioni e centri d’accoglienza autonomi, per ordinare di non fornire alcun servizio ai profughi, che devono essere segnalati e consegnati alle autorità, che si prenderanno cura di loro.«In questo modo – riferisce una fonte di una ong europea – il governo vuole alzare la posta, dimostrando di destinare risorse sempre crescenti all’assistenza dei rifugiati e perciò di meritare denaro, considerazione e agevolazioni dalla comunità internazionale». Una partita economica e politica giocata su più tavoli.Se le province meridionali hanno visto una forte contrazione dei commerci, che in gran parte si reggevano sugli scambi frontalieri con aziende e consumatori siriani, in compenso nelle banche turche sono stati introiettati quasi 20 miliardi di euro trasferiti dai profughi i quali hanno fatto cresce i consumi di elettrodomestici e generi alimentari. Nei primi sette mesi del 2015 nel Paese avevano fatto ingresso 9,1 miliardi di dollari di «origine ignota». Nel 2014 si era avuto un ingresso complessivo di 8 miliardi. Capitali in gran parte espatriati proprio dai profughi. Da una parte è aumentata la concorrenza per il lavoro a basso reddito, creando tensioni in un Paese con un tasso di disoccupazione superiore al 10%, ma va registrato ad esempio l’aumento degli affitti. Nelle zone di frontiera, come Gaziantep, Adiyaman, Antakya e Kilis il costo medio per un alloggio è cresciuto dell’11%.Secondo diversi economisti (molti dei quali chiedono di non essere citati per non fare la fine dei giornalisti anti-Erdogan) si può adottare il calcolo della cosiddetta “linea della fame’, stabilita da governo e sindacati turchi, secondo la quale il minimo indispensabile per non morire di stenti è di 346 lire (108 euro) al mese pro capite. I 2,6 milioni di profughi stanno spendendo cifre superiori, contribuendo a una crescita di mezzo punto del Pil.Non è un caso se proprio nel momento più difficile della crisi umanitaria il vicepremier Mehmet Simsek ha parlato di «sorpresa positiva», annunciando di avere ritoccato proprio di mezzo punto le stime per la crescita nel 2016: dal 4 al 4,5%.