Libero, 9 marzo 2016
In morte di Silvestro Bellini, il papà di Cicciobello
Quando da bambini – con gli occhi curiosi e ingenui di chi cerca di scoprire il mondo – noi maschietti (così ci chiamavano all’asilo) vedevamo le femminucce cullare e coccolare con tanto inspiegabile amore un bambolotto dagli occhi azzurri come se fosse loro figlio, ci chiedevamo cosa le spingesse a un gesto tanto idiota nei confronti di un pupazzo che, peraltro, aveva anche un nome abbastanza stupido: Cicciobello. Non capivamo. Non volevamo capire e anzi, dopo aver sperimentato tutti i dispetti possibili ai danni del finto bambino, prendevamo in giro pesantemente chi si prestava – poco convinto o sottomesso dall’amichetta – a fare il papà della situazione anche solo per pochi minuti di gioco. Esattamente in quel momento, però, non ci rendevamo conto che Cicciobello stava segnando anche noi scettici, oltre a segnare la nostra generazione e tutte le altre del passato e del futuro. Sì, perché il bambolotto più conosciuto al mondo ci ha fatto crescere e affezionare – anche inconsapevolmente – a lui e ora, quando lo rivediamo nelle braccia dei nostri figli o nipoti, non possiamo che provare tenerezza. Simpatia. Indipendentemente dal nostro essere uomini o donne.
Ecco perché oggi è un giorno di tristezza per tutti, un giorno nel quale non possiamo che piangere e ringraziare Silvestro Bellini, che è morto a 87 anni all’ospedale Humanitas Gavazzeni di Bergamo. E che di Cicciobello era il papà. Già, proprio lui, originario di Adrara San Martino (Bergamo), formato all’Accademia Carrara di Bergamo e con un percorso formativo che lo aveva portato a lavorare come artista disegnatore in Australia e negli Usa, nel 1962, assunto come modellatore alla “Sebino” di Cologne (Brescia), disegnò la bambola a grandezza naturale (50 centimetri) poi divenuta nota ovunque. «Mi ispirai al volto di un neonato bergamasco», aveva raccontato tempo fa ed effettivamente l’ovale paffuto e le guance rossastre ricordano i baby di quei tempi e quelle parti (per i più esperti basta pensare ai bimbi de “L’Albero degli zoccoli”, film capolavoro di Ermanno Olmi del 1978).
Cicciobello ebbe subito un successo clamoroso, entrò stabilmente in tutte le famiglie con prole, indipendentemente dai periodi di crisi e austerity e l’azienda di giocattoli che lo produceva, la Sebino, arrivò ad avere fino a 550 operai. Quando poi, nel 1984, la produzione terminò, il marchio e gli stampi passarono prima alla Migliorati Giocattoli di Pavone Mella, sempre nel Bresciano, e poi alla Giochi Preziosi di Cogliate, in Brianza. E il boom continuò perché il bambolotto – morbido, con i capelli biondi e la faccia da angioletto – che piangeva quando gli toglievi di bocca il ciuccio ormai era diventato qualcosa di trasversale che conquistava tutti e, soprattutto, era accessibile a tutti (anche le famiglie più povere facevano uno sforzo per accontentare le figlie a Santa Lucia). Con, ovviamente, modelli e accessori sempre più nuovi: dal passeggino Cicciogo al seggiolone Cicciopappa, dalla culla Ciccionanna fino al fasciatoio Ciccioservice.
Cicciobello, che ha compiuto 54 anni (gli ultimi modelli costano circa 50 euro), oggi ha un’infinità di esemplari tra cui – tenetevi forti – i pazzeschi Cicciobello pappa e mi scappa (sembra uno scherzo ma è tutto vero: si sporca il viso mangiando, poi se gli massaggi la pancina fa una puzzetta e poi fa la pupù e deve essere cambiato!), Cicciobello pipì (beve e poi se la fa addosso nel pannolino), Cicciobello sunny (versione estiva: si abbronza ma se non stai attento si scotta) e Cicciobello bua etci (si ammala e gli devi misurare la febbre e alla fine devi fargli una puntura per farlo guarire). Oltre, ovviamente, ai due bambolotti storici che nel 1967 hanno sfondato le porte della multirazzialità: l’africano Angelo negro (sì, negro) e il cinesino Ciao-fiu-lin.