9 marzo 2016
Come vivere (bene) da eterno comprimario. Confessioni di Ninni Bruschetta
Fabio Ferzetti per Il Messaggero
Volendo potremmo anche metterla così. In America hanno i fratelli Coen. In Italia abbiamo Ninni Bruschetta. I Coen sono tra i massimi autori del più grande cinema del mondo. Bruschetta invece è un ottimo attore abbonato ai ruoli da comprimario del cinema e soprattutto della provincialissima tv italiana. Ovvio che i due mondi di appartenenenza non sono paragonabili. Eppure tra i Coen e Bruschetta, che è anche uno stimato regista teatrale, c’è un punto di contatto clamoroso. Domani infatti nei cinema di tutta Italia uscirà il nuovo film dei geniali fratelli americani, Ave, Cesare!, rievocazione della Hollywood anni Cinquanta che trasuda insieme ironia e nostalgia. Perché i Coen non distinguono tra grandezze e miserie della golden age, ma celebrano la perfezione della “macchina” e la sua spietatezza con lo stesso entusiasmo e la stessa inventiva. Tanto alla fine conta solo la leggenda, e non importa quanto fosse corrotta o gangsteristica: Hollywood era Hollywood e come tutti i miti continua a produrre mitologie. Ninni Bruschetta invece ha scritto un libro pieno di ricordi e di considerazioni personali che dietro un titolo autoironico quanto azzeccato nasconde un discorso molto puntuale su quella fabbrichetta di sogni autarchici che è la nostra televisione: Manuale dell’attore non protagonista (Fazi, 173 pagine, 16 euro). Mettendoci la stessa passione, a suo modo, con cui i Coen evocano la Hollywood di ieri, anche se quello di Bruschetta è il sentimento di un amante deluso.
GLI INIZI
Non dalla propria vita professionale, sia chiaro. Dopotutto, come spiega con abbondanza di esempi, fare il non protagonista è più avventuroso, eccitante e alla fin fine sicuro che essere un divo oggi idolatrato e domani chissà. Basterebbero le pagine in cui rievoca i suoi avventurosi inizi (esilarante il pullman affittato e “rivenduto” ad altri viaggiatori per pagarsi la trasferta al festival Tendencias di Barcellona con Peppe Servillo e gli allora sconosciuti Avion Travel), o il capitolo in cui descrive l’emozione e l’impegno necessario a recitare personaggi veri e finiti tragicamente come il commissario Ninni Cassarà o il caposcorta di Moro, morti “vere” e dalle conseguenze pesanti, per capire che anche fare il non protagonista può essere appassionante.No, la delusione di Bruschetta, diluita con intelligenza in un libro a molti strati, è di altra natura. È la delusione di un siciliano che sogna da sempre di veder cambiare il proprio paese e sa quanto potrebbe servire al riguardo la tv, se la si facesse in un altro modo. È il disincanto di un comprimario che a forza di correre (anche fisicamente) dietro alle scritture, saltando da un capo all’altro dell’Italia, ha capito tutto di come funziona questa macchina.
I FUNZIONARI
Sa come nascono le fiction, genere pervasivo degli ultimi vent’anni. Conosce nei dettagli, per averli assaggiati sulla sua pelle, i modi in cui i funzionari tv esercitano il potere, imponendo provini inutili e umilianti o cambiando dialoghi e trame (bellissima la descrizione dell’imbarazzo provato quando si trova a «dover uccidere un personaggio perché l’attrice non era gradita alla rete», una frase che mette i brividi ma che è pane quotidiano su tutti i set).
E lo sa così bene da esser stato tra le figure chiave di una delle pochissime fiction che hanno lasciato il segno negli ultimi decenni: Boris, naturalmente. La serie di Torre, Ciarrapico e Vendruscolo che usava le fiction come uno specchio nemmeno così deformante dell’Italia cialtrona in cui viviamo. Boris, la serie che tutti si affrettano a definire “di nicchia” per toglierle peso e mordente. Mentre Bruschetta sa che conquista spettatori di ogni regione e cultura proprio perché dice la verità. E soprattutto la dice con un’inventiva, un ritmo, un rispetto per il sacro divertimento del pubblico, che nella tv italiana sono merce rara. Così, per sognare dobbiamo rivolgerci ai fratelli Coen, ma per sapere come funziona il nostro paese basta guardare le sue tv, i soggetti che scelgono, le tacite regole che seguono, gli attori che promuovono (in Italia, sospira Bruschetta, un Paul Giamatti non sarebbe mai protagonista). Fino a ieri almeno, perché le cose potrebbero anche cambiare. Basterebbe seguire le regole delle serie tv americane. E ancor prima, volerlo.
Elisabetta Ambrosi per il Fatto Quotidiano
La prima volta da attore non protagonista fu quando all’asilo gli chiesero di fare il pastorello e lui era così emozionato da essere sul punto di fallire, nonostante non dovesse recitare alcuna battuta. Da allora, Ninni Bruschetta ha fatto il regista teatrale, ha diretto teatri stabili – attualmente è direttore artistico del Teatro di Messina – e ha partecipato a circa 90 set tra cinema e tv (raggiungendo una certa notorietà con Duccio, il direttore della fotografia cocainomane di Boris). Ma sempre e solo da attore non protagonista. E proprio in questa veste ha pubblicato uno spassoso libro, Manuale di sopravvivenza dell’attore non protagonista, in cui racconta il mondo della fiction – la “madre” degli attori non protagonisti, che per sopravvivere devono per forza riciclarsi in tv – da un punto di vista inedito: quello di chi si trova a prendere aerei e treni come un forsennato, saltando da una fiction all’altra, in modo da non perdere nessuna delle proposte fatte, per poi trovarsi magari di fronte a poche battute irrecitabili e decontestualizzate o a prodotti talmente inconsistenti da costringerlo a “arrotondare” con fantasia il personaggio.
L’attore non protagonista, una condizione stabile (“Se non siete bellissimi o molto raccomandati non farete MAI i protagonisti, e non vincerete mai un premio per attori non protagonisti, che vanno ai protagonisti quando fanno i non protagonisti”), deve fronteggiare numerose prove.
Ad esempio quella di essere impietosamente tagliati – è successo a Bruschetta con Moretti, “Ci rimasi malissimo” –, o sopportare l’incubo delle puntate pilota girate a costo zero nella speranza di catturare l’attenzione di un funzionario di rete; ma anche il vecchio amico che ti dice sadico: “Ma perché ti fanno sempre morire?”, oppure l’incontro con gli attori sul set che se sono poco famosi si lamentano con te, se sono importanti ti parlano del loro prossimo impegno (sempre chiamato “Una cosa mia”), per poi alludere ai tuoi presunti fallimenti (“Mi è piaciuto, peccato fosse un prodotto di nicchia”).
L’attore non protagonista necessita anche di una memoria di ferro perché in poche battute deve rappresentare un personaggio a tutto tondo, non deve confondersi (anche se all’autore è capitato di interpretare Duccio nella fiction Fuoriclasse, ma “per fortuna giravo solamente il cucchiaino in una tazza di caffè e nessuno si accorse di nulla”), soprattutto deve avere una grande forza d’animo (“Vi troverete a invidiare il posto fisso del cassiere, del tassista, di chiunque vi dia l’idea di non dover aspettare che qualcuno lo chiami per lavorare”). Nonostante tutto, essere non protagonisti può avere qualche vantaggio. I vip, infatti, spesso subiscono copioni che gli addossano sulle spalle “uno spropositato carico di responsabilità”, ma soprattutto sono “stressati da interviste, autografi, fotografie, contratti, inviti in tv e nelle radio, servizi su Vanity Fair e molte altre cose orribili di questo genere”. E magari quando stanno sul set cercando di concentrarsi su un “copione di merda” arriva l’attore pseudoemergente “che gli rompe apertamente le palle”.
Il libro contiene uno sguardo impietoso sulla fiction italiana. “Dopo le saghe mafiose, il terrorismo, il falso patriottismo, dopo aver proposto in tutte le salse le scuole e gli adolescenti, dopo aver decretato il declino dello sceneggiato in costume, dopo i papi, i santi, i preti, dopo gli istant movie non riusciti, fino ad arrivare alla satira della fiction stessa, cos’altro ci potrà essere?”, si chiede l’autore. A parte poche eccezioni, infatti, (tra cui Romanzo Criminale e Gomorra), la fiction italiana si è assunta la responsabilità di “restituire una realtà edulcorata, appiattita su un livello basso imposto politicamente allo spettatore medio”.
“La maggior parte”, continua, “sembra scritta dai nostri nonni, sono rivolte a uno spettatore buonista, bigotto, perbenista, ignorante”. E poi c’è il mondo dello spettacolo, un diffuso sottobosco fatto di funzionari incompetenti, pseudogiornalisti, critici improvvisati, arrampicatori privi di scrupoli, fantomatici esperti, leccatori di culo dei produttori e, peggio, leccatori di culo degli assistenti dei produttori. I cast vengono scelti in modo surreale: “Si fanno sempre i soliti tre nomi, quelli che si ricordano, magari perché li si è conosciuti a un ricevimento, o perché gliene hanno parlato i figli o la moglie o semplicemente perché fanno audience. La corrispondenza col personaggio viene del tutto ignorata”. Eppure basterebbe poco: “Dare spazio a sceneggiature ben scritte, ai registi e agli attori bravi, fare le cose come si deve, ripristinare le vere gerarchie e puntare sulla qualità”. Perché di questo si gioverebbero tutti, in primo luogo gli attori. Protagonisti o non protagonisti che siano.