La Stampa, 9 marzo 2016
Il Giappone ha trovato un campione di sumo, dopo troppi anni di sconfitte
La grande speranza dei tifosi giapponesi di sumo si chiama Kotoshogiku. I suoi 177 chili di ciccia e muscoli sono riusciti a mettere al tappeto l’avversario in un incontro importante, quello che gli ha fatto vincere il primo dei sei tornei della stagione. È la prima volta in dieci anni che un lottatore di origini giapponesi riesce a vincere un torneo e questo sta infondendo di orgoglio patriottico una nazione indebolita dalle altalene finanziarie, da un’economia che stenta a decollare e dall’Abe-nomics che zoppica. Così anche un campione di uno sport tradizionale sempre meno seguito dai giovani, può comunque inorgoglire generazioni più mature che hanno bisogno di credere nella propria forza.
A guardar bene non è che sia una vittoria così promettente. Non è detto infatti che Kotoshogiku riesca a diventare uno yokozuna, il titolo più alto per un lottatore di sumo che rientra in un ambito limitrofo alla sacralità. Ha 32 anni ed è il primo torneo che vince, mentre invece lo yokozuna conclamato più promettente di queste ultime stagioni è il 30enne Hakuho, che di tornei ne ha già vinti 34.
I campioni della Mongolia
C’è un piccolo problema: che Hakuho viene dalla Mongolia, il che ricorda a tutti che a partire dagli Anni 90 furono i lottatori stranieri a dominare il sumo. Prima i mongoli, poi la stagione dei bulgari e poi anche gli estoni, anche se i primi stranieri a penetrare in questo sport furono gli hawaiiani negli Anni 70. Le consistenti vittorie mongole innescarono un’immediata crisi di identità tra i patiti di questo genere di lotta, cosa che alcuni sentono ancora come una vergogna nazionale. Il sumo ha più di 1500 anni, ma i primi tornei iniziarono nel 1623. È una competizione che può sembrare incomprensibile ai non iniziati. Laggiù, al centro dell’arena, sul ring, si vedono delle montagne di carne accucciarsi, darsi grandi manate sulle cosce, scodellare pance lardose e spargere sale purificatorio prima di cominciare davvero. Poi, uomini drammaticamente sovrappeso che ricordano dei panda giganti vestiti con un unico grande pannolone (il mawashi), si attaccano con una grinta spaventosa.
Goffredo Parise, nei suoi famosi reportage dal Giappone, raccolti ne “L’eleganza è frigida,” descrive lo stadio del sumo come “un tempio laico dedicato al mistero della natura di cui mai si può dire dove, quando e perché scelga per l’uno anziché per l’altro la vita, la morte o la vittoria sportiva.” Ed è proprio così, perché può capitare di vedere una sardina di appena un quintale scardinare la solidità di un Moby Dick da 250 kg, in un unica rapida mossa di pochi secondi.
In questa sfida, Parise intravide una metafora: “La concorrenza dentro la specie era il sentimento che faceva andare il mondo e non l’amore.” Eppure questi potenti scontri hanno un fascino anche elegante, per certi versi, e una compostezza rara. Ad esempio, celebrare in maniera sguaiata la propria vittoria è una violazione del decoro. E fu proprio questo uno dei primi errori dei lottatori stranieri, non allevati nelle scuderie fin da piccoli, come invece quelli di origini giapponesi.
Bisogna conoscere bene i riti, capire il significato dei tamburi taiko, gli annunci delle voci stridule in stile kabuki, l’ondeggiare degli abiti variopinti di seta degli arbitri che agitano freneticamente i loro ventagli. Dietro al carisma e alla grinta dei lottatori, che purtroppo a causa di dieta e stress muoiono spesso giovani, c’è una flessibilità sorprendente, che si scopre osservandoli fare le spaccate per riscaldarsi. Ci sono 82 modi per destabilizzare l’avversario, ma non si tirano i capelli, non si danno pugni, non si può strozzare e non sono permessi colpi bassi. Le regole sono in realtà rudemente semplici: il primo che esce dal ring perde e il primo che tocca terra con qualsiasi parte del corpo che non siano le suole dei piedi, perde.
Come in altri settori della realtà giapponese, anche qui si vive una decadenza. Sono emersi i primi scandali di incontri truccati ed è cresciuto il ruolo della yakuza, i cui esponenti si osservano sempre più spesso in prima fila attorno al ring.
Ma lo sport, molto in voga tra i turisti, resiste nella tradizione. Resiste soprattutto come simbolo di una nipponicità possente e vincente. Ed è per questo che sulla riscossa di Kotoshogiku ora puntano le speranze di un paese intero di tifosi, in attesa di vedere se riuscirà a conquistare la vittoria anche del prossimo torneo.