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 2016  marzo 09 Mercoledì calendario

Misurata, la città specializzata in guerre, è pronta a ripartire. E con l’aiuto degli inglesi e degli americani vuole sconfiggere l’Isis

 

Alle 4 del pomeriggio Misurata rallenta, il sole di marzo è già caldo. La città- martire della rivoluzione contro Gheddafi, la Sparta di Libia è in pausa. La comunità guerriera sospende per poche ore i ritmi di quello che prima della guerra è sempre stato il suo impegno principale: il commercio, gli scambi, gli affari. Perché Misurata non dimentica di essere innanzitutto una città di commercianti, senza petrolio, e quindi costretta a correre e trafficare più di tripolini e bengasini. Ma adesso che si è specializzata in guerre, è pronta a ripartire. E con l’aiuto degli americani i suoi cittadini vogliono diventare «i curdi di Libia».

Davanti all’ingresso del piccolo museo, sulla via Tripoli che fu il viale dei combattimenti più sanguinosi fra gheddafiani e rivoluzionari, c’è la famosa statua della mano di ferro color oro, il pugno che sorge dalla terra per afferrare un caccia Usa. Era la statua-simbolo che il colonnello aveva fatto piazzare davanti le rovine di Bab el Azizia la sua casa bombardata dagli americani nel 1986. Tutt’intorno sul piazzale ci sono decine di mortai, carri armati, un cannone semovente italiano “Palmaria”, bombe e missili che tutti insieme celebrano quello che è custodito dentro il museo, dietro le saracinesche abbassate dal custode. Sono le 5000 foto dei giovani e meno giovani martiri della rivoluzione, gli uomini di Misurata uccisi dalle truppe di Gheddafi. Abdallah, l’amico che ci accompagna, vede arrivare il custode da lontano: «Sta tornando, fra poco riaprono…», ma poi riprende il discorso sulla nuova guerra che sta per arrivare. «Abbiamo combattuto per la liberazione da Gheddafi, poi ci siamo infognati nella nostra maledetta guerra civile, che è solo sospesa, Tripoli e Misurata contro il generale Haftar e la città di Zintan. E adesso ci prepariamo a combattere ancora contro lo Stato islamico, a Sirte».

Misurata quindi è pronta alla guerra che può ritornare, ma si prepara con l’aiuto delle forze speciali americane dello “US Special Ops Team Number 2” che sono già in città. Bastano pochi minuti in auto attraverso il centro e poi via verso il piccolo aeroportino internazionale della città. Dall’altra parte della pista ci sono i Mig che l’aviazione di Misurata si è ritrovata in eredità dall’esercito di Gheddafi e sta rimettendo in funzione con l’aiuto di misteriosi tecnici dell’Est Europa (ucraini, bielorussi?). Ogni tanto un bombardamento, l’altroieri hanno colpito Sirte.

Ma dietro gli hangar ci sono le costruzioni basse di quella che era l’accademia aeronautica libica, la scuola dei piloti militari dei Gheddafi. Oggi sono uno dei centri di comando e controllo delle brigate di Misurata. E soprattutto sono la base delle forze speciali americane e inglesi, i consulenti militari che stanno aiutando i misuratini a organizzare l’assalto allo Stato Islamico.

I “bianchi”, gli americani e gli inglesi non si vedono in città. Atterrano e ripartono di notte dall’aeroporto, aggiornano i militari di Misurata con la loro intelligence e spiegano loro cosa andare a raccogliere e come incrociare le informazioni. «Innanzitutto ci stanno dando una mano con la loro metodologia, a costruire una rete in tutto il paese, voglio dire una mappa in cui noi riusciamo a collocare i capi o i militanti dell’Is che riusciamo a individuare», dice una fonte di Misurata. Americani e inglesi scaricano in quella base i dati raccolti degli Usa dalla Nsa (quella che ascoltava anche Berlusconi e la Merkel) e gli inglesi incrociano con le informazioni elettroniche del Gchq.

Quello che gli americani fanno è molto chiaro: stanno preparando nuovi attacchi aerei, ovunque ci siano basi dell’Is occupate da un numero sufficiente di militanti. Sirte innanzitutto, ma anche vicino Tripoli, come hanno già fatto a Sabrata.

Delle forze speciali americane, britanniche e francesi ci aveva già parlato lunedì a Tripoli il vice-ministro della Difesa, Mohamed Nass: «Io credo che Francia e Gran Bretagna, che hanno creato il problema di questa Libia in cui tutto si è polverizzato, dovrebbero fare molto di più dal punto di vista militare per aiutarci a combattere l’Is. Che ci siano truppe speciali a Misurata e a Bengasi adesso lo sa benissimo anche l’Is, e sicuramente loro si saranno già spostati, si prepareranno ai nuovi bombardamenti che stanno per arrivare. Ma i terroristi potremo combatterli solo quando avremo un accordo politico in Libia, quando avremo di nuovo un esercito nazionale capace ed unito».

Le parole del vice-ministro sono una conferma sincera di tutto quello che si sa perfettamente: in Libia il potere è nelle mani delle milizie, ma alla fine è proprio con le milizie “meno peggiori” che hanno deciso di allearsi americani e inglesi per iniziare a colpire lo Stato Islamico. Senza creare perlomeno un inizio di governo nazionale, combattere il Califfo sarà più difficile. Perché la logica delle milizie è quella di essere sempre pronte a scannarsi fra di loro. Un anno fa, a marzo, con un gruppo di militari di Misurata facemmo un breve viaggio a Sirte, dove i miliziani di Al Baghdadi stavano ancora arrivando da Siria/ Iraq, dalla Tunisia e dal resto dell’Africa jihadista. Attraversammo Sirte, vedemmo i bandieroni neri dell’Is e poi le basi, i check point che le milizie di Misurata tenevano intorno alla città. «Poi decidemmo di tornare indietro, di rinunciare a quella battaglia», dice adesso uno dei colonnelli che ci accompagnava, «ed è chiaro perché: non avevamo e non abbiamo abbastanza forze e munizioni per essere a Tripoli e proteggerla da Zintan, per essere nel Sud per proteggerci dagli alleati di Haftar e per combattere anche l’Is a Sirte. Dobbiamo difenderci a Misurata».

Ritorniamo al museo della guerra. Il guardiano Ramadan Dolaa ha riaperto, attraversiamo i saloni con le foto dei martiri ma nelle bacheche di vetro ci sono anche gli oggetti “confiscati” dai rivoluzionari nel bunker di Gheddafi. Le giacche militari, le camicie con i volti dei leader africani, le spade dorate. «Da questa parte abbiamo sfondato i muri, ci siamo allargati, abbiamo spazio per esporre le foto che ci mancavano», dice Ramadan. C’è spazio per le nuove foto che potrebbero arrivare. «Siamo stanchi di guerra, ma siamo pronti a farla».