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 2016  marzo 08 Martedì calendario

Lucrezia Lante della Rovere e l’ansia del palco

Ore 16:45, mancano poche ore alle ultime prove per il debutto teatrale a Roma di Io sono Misia. Lucrezia Lante della Rovere vaga per la cucina, cerca, quasi invano, di preparare un caffè, accarezza il cane, muove il collo e ammette: “Sono tutta incriccata”.
Con l’esperienza il nervosismo non passa.
No, no ed è anche il bello, altrimenti due palle. Già sono pochi gli aspetti della vita che ci emozionano…
All’inizio uno era meno nervoso perché inconsapevole.
All’inizio sei agitata perché non hai esperienza, c’è la paura, ti senti sbagliata; dopo perché ti senti sempre più messa alla prova, magari hai alzato un calderone, tra giornali e promozione, scrittura e organizzazione, ma lo hai cercato, quindi non puoi dire nulla.
All’inizio della carriera, quando c’era una prima…
Speravo di farmi male in motorino, di schiantarmi.
Una scusa inattaccabile per non salire sul palco.
Però ancora oggi… Poco fa, quando stavo al parco con il mio cane, ho pensato: ‘Ora ingurgita una polpetta avvelenata, oppure scappa, io do la priorità a lui’. Insomma i pensieri di fuga ci sono sempre.
Però con gli anni qualcosa ha imparato a dominare.
Sì, eccome. Sono felicissima, non vedo l’ora di andare in scena, mi diverto. Ad esempio sabato la replica dello spettacolo è stata un successo, sono andata a bomba; quella di domenica meno convincente. Ma è sempre così, difficile replicare certi momenti.
Il suo parametro?
In primis la percezione interna.
L’ansia finisce con l’apertura del sipario?
Non sempre, dipende. Ma se dura è una tragedia, quando senti che la testa non è pienamente dedita allo spettacolo, quando un pensiero porta dentro un altro pensiero, e ancora un altro e così via. Quando tutto ti distrae, e la nostra testa va contro di noi, allora sono dolori.
Uno rischia il tilt.
Nella prova generale messa in scena in provincia di Lecce, ancor prima di iniziare, sono diventata un muro, mi veniva da piangere, non volevo andare in scena, a chi mi parlava replicavo con un ‘non voglio più fare l’attrice!’, e tutto il repertorio di questi momenti.
E come si esce da una situazione del genere?
Passa e basta.
Sono up e down terribili.
Beh, sì. A volte hai la sensazione di buttarti in una piscina vuota. Ma va bene, mi piace.
Le piace di meno la parte gossip.
Eppure è quella che mi domandano sempre, questo Paese va così. E che noia. Dico sempre le stesse cose, però capisco, è abbastanza inevitabile: ho una mamma straconosciuta (Marina Ripa di Meana), anche il papà delle mie figlie non scherza (Giovanni Malagò) un ex fidanzato altrettanto famoso (Luca Barbareschi), è inevitabile entrare in certe logiche.
Va bene, usciamo da questa parentesi. Ultimo giorno, ultime prove?
Oddio, non so! Credo di no…
Rito finale?
In questi giorni ho cantato a squarciagola, da Lucio Dalla a Fiorella Mannoia. Poi mi butto per terra e sono esercizi per la schiena e il collo, quindi il classico ‘merda, merda, merda’. Ah, e poi con Francesco Zecca (il regista) ci applichiamo in una sorta di Tuca Tuca.
Debutto a Roma l’8 marzo.
E portiamo in scena una gran donna; una donna scappata da scuola nella Parigi di fine Ottocento quando aveva solo 14 anni, bravissima pianista, arriva in Inghilterra e si mantiene grazie alle ripetizioni di musica. Neanche bella, anzi cicciottella, si sposa tre volte, conosce tutti i più grandi artisti dell’epoca, li influenza, li sovvenziona, li scopre, lei dice ‘li partorivo’. A suo modo segna un periodo.
Anche questo spettacolo è frutto di una sorta di mecenatismo.
Metterlo su è stato complicatissimo, tutto è nato con Vittorio Cielo che ha accettato di scrivere il testo, poi Francesco ha lavorato alla regia. A loro ho detto ‘partiamo e vediamo’…
E poi?
Ci siamo seduti per settimane a lavorare nella mia cucina e abbiamo strappato uno spazio al Festival di Spoleto. E lì mi è preso un colpo, con Francesco che fantasticava di luci, poltrone da mettere in scena, e io che gli dicevo ‘non abbiamo un euro!’
Ha vinto lui.
Abbiamo iniziato a recuperare dei soldi in famiglia, sul cartellone sono scritti i nomi di chi ha finanziato: Carlo e Marina Ripa di Meana, Livia e Vincenzo Malagò, miei suoceri, Giovanni Malagò e Gianluca Pignatelli. I primi a crederci.
Affetto pratico.
Mia madre mi ha regalato il tessuto per cappotto e poltrona, Giovanni il microfono.
Come il microfono?
Non praticamente, ognuno ha dato la sua quota, a me piace riportarla a un oggetto. Poi c’è anche la signora Marina Lia, figlia di un collezionista di La Spezia, con un figlio appassionato di teatro: si è talmente entusiasmata per lo spettacolo da finanziarlo con la sua Fondazione Devlata.
Finisce lo spettacolo e il primo pensiero?
Fame, un bicchiere di vino! Sì, dopo fai ahhh, soprattutto quando è andata bene.
E se non è andata bene?
Ti girano.
E si fida dei commenti di chi viene in camerino?
No, figurarsi. Ma insisto, non li mollo fino a quando non ho capito la realtà.