La Stampa, 8 marzo 2016
«Amo Breznev più di mamma». Essere bambino in Unione Sovietica
La calzamaglia di lana, che pizzica le cosce e scivola sempre. Il pasticcino con la crema verde che unge le mani. Il distintivo del piccolo «ottobrino», una stella rossa con la testolina riccioluta di Lenin bambino. Messaggi in codice, segnaletiche di riconoscimento, ossessioni che si materializzano. Il passato sovietico è il leitmotiv del momento non solo nella propaganda politica, e un’intera generazione di scrittori russi è tornata a esplorare la propria infanzia. Scoprendola terribile. Povera, con le caramelle come unici dolci e il sogno di una torta, minestre fetide, tute da ginnastica rotte sulle ginocchia, casermoni prefabbricati e la vacanza in campagna dalla babushka.
Squallida, con i giochi nei cantieri abbandonati, la monotonia della scuola, l’ignoranza, la sporcizia, la fabbrica con le ciminiere fumanti fuori dalla finestra, unico posto dove andare a lavorare una volta grandi, con maschi perennemente ubriachi, femmine deformate dal cibo scadente e dalla fatica e vecchi lasciati morire in ospedali caserma. Violenta, con la cinghia che il padre si sfila dai pantaloni, l’urlo della nonna, le botte e i coltelli dei ragazzi in cortile, le umiliazioni della maestra.
Senza nulla
Un’infanzia senza nulla di quello che prometteva la leggenda sovietica: il balletto, la scuola con gli scacchi e la matematica, i falò dei pionieri sul Mar Nero, le biblioteche e lo sport. Il passato raccontato dai nuovi romanzieri russi, quelli quarantenni o poco più, è quasi sempre una provincia (ma anche le infanzie moscovite non sono da meno, come nel struggente Seppellitemi dietro al battiscopa di Pavel Sanaev, storia di sadismo familiare nella quale si è riconosciuta una generazione), dalla quale fuggire a tutti i costi, a Mosca, a Mosca, dove c’è l’unica vita possibile.
Ossessione
Una narrazione che si ripete ossessivamente nei romanzi riempiti di premi letterari, come nel trash giallo-rosa. Quasi un luogo comune, come gli orrori del Gulag per la generazione letteraria precedente. I protagonisti – e gli autori – ce l’hanno fatta. Oggi sono top manager, Dukhless, (Senza Anima) di Serhei Minaev e Lighthead di Olga Slavnikova, tradotto in Italia da Fandango), pupari politici (Vicinoallozero di Natan Dubovickij, pubblicato da Feltrinelli), medici di fama (Chirurgo e Vicolo senza dio di Marina Stepnova). Disseratno sulle annate del Sassicaia, i capi di Brioni, gli optional delle Jaguar, i diamanti di Van Cleef e gli alberghi della Sardegna.
Aborrono tutto quello che potrebbe far venire il sospetto che anche loro hanno avuto un passato: «Preferiscono sentirsi non figli di padri e madri falliti, usati dalla vita, ma creature dei treni, arrivati gravidi alle stazioni moscovite per depositare le loro larve sulle banchine», descrive Slavnikova il suo «uomo nuovo». Terrorizzato, come Egor Samokhodov di Vicinoallozero di «incontrare nell’imboscata del domani il proprio pallido e umile passato, lasciato a tradimento a morire nell’oblio». La ricerca ossessiva del padre e della madre nel cinema e nella letteratura italiana è estranea al Chirurgo che torna nel paese natale richiamato dal telegramma della morte della madre e invece dell’amarcord prova solo disgusto. I «senza anima» sono orfani per scelta, i genitori che «non capiscono cosa gli è accaduto... che nessuno aveva previsto per loro né longevità, né benessere. Non sono stati nemmeno infelici in modo umano... non fanno nemmeno pena», ragiona il protagonista di Lighthead prima della penosa telefonata a casa semestrale.
Parricidio
Un parricidio senza appello, per poter accedere allo splendido mondo nuovo. Dove tutto sarà come nelle riviste patinate, incluso il grande amore. Che però immancabilmente fallisce, e il fighissimo top manager «senza anima» si scopre incapace di dire le uniche parole giuste, e il brillante Samokhodov (alter ego dell’eminenza grigia di Putin, Vladislav Surkov, nascosto dietro lo pseudonimo di Dubovickij) piange impotente «per il non amore e il desiderio di amare, e l’impossibilità di realizzarlo». Lui «non voleva amare nessuno», era la sua forza. «Chi ha vissuto l’infanzia davvero, con gli occhi aperti, inizia la vita pronto. Dopo, non potranno più farci male», scrive Dmitry Bykov, uno dei maggiori romanzieri contemporanei, nella prefazione alla raccolta di racconti «Il mondo dei bambini».
Dopo, non si crede più in nulla, e non a caso la politica è quasi totalmente assente. Gli autori della generazione precedente restano inchiodati alla loro giovinezza di sogni e a Stalin come incubo nazionale. I quarantenni menzionano la bandiera rossa solo come simbolo dell’epoca, uguale alle bambole della Ddr dai tondi occhi azzurri. La loro ossessione è la vita privata, nella quale chiudersi come in una fortezza. Ma, comprate le Mercedes e gli Armani, imparate le classifiche di Michelin e il listino del chirurgo estetico, scoprono – un altro leitmotiv ossessivo – di non sapere essere felici. Perché la loro infanzia non era soltanto povera e squallida. Era soprattutto anafettiva. Bambini nati più per mancanza di contraccettivi che per amore, padri che non gli hanno rivolto la parola, madri sbiadite dalla fatica, nonne scorbutiche, professoresse zitelle, il conformismo ideologico pervasivo (il bambino che torna dall’asilo dichiarando alla mamma di amare Breznev più di lei è un classico dell’imprinting made in Urss): non si impara nulla, una parola, un gesto, l’empatia è sconosciuta e, a differenza di Ferragamo e Gucci, non si può comprare in Europa. È una sorta di piramide di Maslow, dove generazioni di sovietici erano talmente impegnati a combattere per il cibo, il riparo e la sicurezza da considerare il bisogno di amare ed essere amati un lusso, quasi un pericolo. I loro figli hanno ottenuto quello che i genitori non sapevano nemmeno esistesse, ma restano «spaventati, come tutti noi, per sempre».
Sindrome postraumatica
Più di una crisi della maturità sembra una terapia di gruppo generazionale da sindrome postraumatica, perché «la città è un’altra, il Paese è un altro, e a volte penso che la nostra infanzia è trascorsa su un altro pianeta», scrive Max Frai, e la vita è spaccata in un prima e un dopo inconciliabili. Si condanna senza appello il passato sovietico, ma non si riesce a immaginare una vita fuori dall’Urss. E mentre il dopo viene descritto con il linguaggio delle riviste patinate, in scenografie di plastica con le etichette delle griffe doviziosamente appiccicate, i flashback hanno un’intensità di colori, sapori, ruvidità, puzze, una puntigliosità nei dettagli e i modi di dire, da far venire le vertigini a Proust, perché tutti in Urss hanno mangiato la medesima madeleine, e ogni famiglia era infelice allo stesso modo.
I genitori erano stati appiattiti dalla paura del Gulag i figli mutilati dai mini-Gulag nei bilocali tipo, con tre generazioni in coabitazione. E nulla cambia se da grandi si scopre che la nonna sadica di Sanaev era impazzita durante le purghe staliniane, e che il nonno di Lighthead ha odiato per tutta la vita il Kgb. Perché non esiste un altro passato, e come scrive Stepnova, quarantenne globalizzata direttrice di una rivista glamour, «erano i più felici del mondo, i sovietici, un grande popolo, e se avete avvertito in queste parole una minima ironia allora vi siete scordati tutto o, peggio, siete nati dopo il 1985».