Il Sole 24 Ore, 8 marzo 2016
Il petrolio torna sopra i 40 dollari, ma non c’è un vero perché
Sono passati sei mesi da quando Goldman Sachs, con un’altra delle sue previsioni shock, aveva messo in guardia dalla possibilità che il petrolio crollasse a 20 dollari al barile. Anche stavolta la banca potrebbe essersi sbagliata, come nel 2008, quando prefigurava un’ascesa fino a 200 dollari. Il greggio – che in gennaio era crollato a livelli di prezzo che non toccava da tredici anni, intorno a 27 $/barile – ha finalmente interrotto la sua discesa e vale oggi più del doppio dei 20 dollari indicati da Goldman. Il Brent ieri si è spinto fino a 41,04 dollari, il massimo dal 9 dicembre, e da inizio anno segna un rialzo di quasi il 5 per cento. Niente male davvero, visto il rovinoso esordio del 2016, che aveva visto precipitare a rotta di collo le quotazioni petrolifere.
Certo, potrebbe trattarsi soltanto di una tregua: in fondo anche la scorsa primavera c’era stata un’illusione di ripresa dei prezzi. Più ancora delle esperienze passate, dovrebbero essere i fondamentali ad invitare alla cautela: sul mercato del petrolio l’eccesso di offerta è tutt’altro che scomparso e comunque solo nei Paesi Ocse ci sono oltre 3 miliardi di barili di scorte, tra greggio e prodotti raffinati. Così tanti che nel Nord Europa le petroliere si devono mettere in coda per scaricare nei porti, mentre negli Stati Uniti si è arrivati a stipare le scorte persino sui treni. È vero che lo shale oil, dopo aver retto a lungo la sfida con l’Opec, sta finalmente accusando il colpo: la produzione Usa – benché tuttora alta, a 9,1 milioni di barili al giorno – è ai minimi da novembre 2014. È anche vero che l’Opec stessa ha cambiato atteggiamento: c’è un accordo di massima con la Russia e altri Paesi per congelare l’output sui livelli di gennaio e chissà forse in futuro potrebbe arrivare anche un taglio produttivo. Qualche analista ci crede, anche se l’Iran ha cominciato a tradurre in realtà le ambizioni di un ritorno sul mercato: domenica Teheran ha recapitato in Europa il primo carico di greggio dal 2012, quando erano entrate in vigore le sanzioni. A riceverlo è stato una raffineria spagnola, ma presto – c’è da scommetterci – anche gli altri clienti storici, tra cui l’Italia, torneranno a rifornirsi dagli iraniani.
Oggi come oggi però tutto questo importa poco agli investitori. L’umore sui mercati è cambiato drasticamente: la tendenza è diventata rialzista, non solo per il petrolio, ma anche per molte altre materie prime, dall’oro al rame al minerale di ferro. E come si sa i rialzi alimentano ulteriori rialzi, a maggior ragione su piazze sempre più frequentate da fondi algoritmici, per cui i fondamentali non hanno alcun valore. È l’orientamento dei fondi l’ostacolo più grande alle previsioni ribassiste di Goldman Sachs. Le posizioni nette lunghe (ossia all’acquisto) sul Brent sono ai massimi da quando l’Ice ha cominciato a diffondere le statistiche nel 2011: nella settimana al 1° marzo si è arrivati a 342.460 contratti, tra futures e opzioni, con un aumento di 21.171. Un’analoga migrazione verso scommesse rialziste è in atto anche al Nymex, dove il Wti ieri si è spinto fino a superare 38 dollari al barile: le posizioni nette lunghe in questo caso sono solo ai massimi da novembre, ma in una settimana quelle corte (alla vendita) si sono ridotte del 15%, il ritmo più veloce da aprile 2015. Era proprio a quell’epoca che le quotazioni del barile si erano messe a correre, creando l’illusione che il ciclo negativo fosse finito.