la Repubblica, 8 marzo 2016
La Malaysia Airlines si arrende: non si saprà mai che fine ha fatto il Boeing 777 scomparso due anni fa mentre volava tra Kuala Lumpur e Pechino
Nessun segno del relitto sui fondali del “settimo arco”. Un solo pezzo (sui tre milioni di componenti di un Boeing 777) recuperato – coperto di crostacei – su una spiaggia dell’isola di Réunion. Zero segnali dalle scatole nere. Il giallo del volo MH370 della Malaysia Airlines, scomparso due anni fa mentre viaggiava tra Kuala Lumpur e Pechino, sta per andare in archivio come il più grande mistero irrisolto dell’aeronautica civile. Oggi il governo di Kuala Lumpur presenterà il rapporto (forse definitivo) sulla tragedia. E – salvo sorprese – alzerà bandiera bianca, confermando che certezze non ce ne sono. A luglio le quattro navi che stanno rastrellando con sonar e droni subacquei i 120mila chilometri quadrati di Oceano Indiano dove sarebbe caduto il jet abbandoneranno le ricerche. I parenti delle 239 vittime rimarranno senza corpi da piangere e senza spiegazioni della tragedia. Nemmeno i 20 petabytes di dati raccolti dagli investigatori – dieci volte le dimensioni della biblioteca del Congresso Usa – sono bastati a far chiarezza sui misteri del volo fantasma dell’MH 370. La prima domanda è sempre la stessa. Come fa a sparire nel nulla un aereo con un’apertura alare di 71 metri in un mondo dove ogni smartphone è tracciabile 24 ore su 24? Il volo MH370, inspiegabilmente, ci è riuscito. «Buonanotte, Malaysia 370» ha comunicato alle 01.19 dell’8 marzo 2014 la cabina di pilotaggio. Poi il buio. Qualcuno a bordo ha spento i sistemi di comunicazione. Un radar militare ha intercettato per sei minuti il Boeing fuori rotta a sud di Phuket. L’unico segno di vita da allora sono stati sette “ping” elettronici rilevati da un satellite. L’ultimo, alle 08.19, un messaggio d’allarme per assenza di corrente. «L’ipotesi più probabile è che l’aereo sia stato dirottato dal pilota – sostiene il rapporto di dicembre 2015 dell’Australian Transport Safety Bureau – E sia precipitato 6mila chilometri più a sud per esaurimento del carburante. Prima si è spento il motore di destra, un quarto d’ora dopo quello opposto. Quindi l’aereo è cabrato a sinistra e si è schiantato a vite nell’oceano». Dove? Nel settimo arco, hanno calcolato i modelli matematici, quello spicchio di Oceano Indiano 2mila km a ovest di Perth dove sono concentrate le ricerche. Un’area che andrebbe allargata parecchio, dicono gli esperti, se il pilota fosse riuscito a far planare il jet a motori spenti. Anche la caccia al relitto è circondata dai misteri. Perché le autorità militari hanno collaborato a sprazzi? Come mai all’inizio, malgrado fosse certificata la deviazione a sud, le ricerche sono state fatte altrove? I 150 milioni spesi per scandagliare l’oceano sono serviti a poco: sui fondali è stata individuata solo una nave affondata un secolo fa. Dell’aereo nessuna traccia. «È probabile che si trovi entro luglio» dicono ottimisti a Sydney. Sarà. Il mare però ha restituito solo un pezzo di ala dell’Mh370. Potrebbe raccontare molto di cosa è successo (velocità di impatto con l’acqua, se l’aereo è esploso in volo o no) ma nessuna informazione è pubblica. Nei giorni scorsi un altro pezzo di Boeing è stato recuperato in Mozambico e spedito in Australia per accertare se è del jet malese. Nessun altro detrito – nemmeno i salvagenti che avrebbero dovuto galleggiare – è mai stato trovato. Il mistero, insomma, è fitto. E l’assenza di spiegazioni riduce i margini legali per le famiglie delle vittime. Malaysia ha pagato 160mila dollari a passeggero. Senza prove della colpevolezza di Boeing e compagnia, però, vincere in tribunale è difficile. A poco sono servite le lezioni dell’MH370 per la sicurezza: le scatole nere dovranno durare 90 giorni (e non 30) e gli aerei segnaleranno ogni 15 minuti la posizione quando non sono coperti da radar. Ma l’obbligo scatterà solo dal 2018.