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 2016  marzo 06 Domenica calendario

Anche gli slogan hanno un senso

La poesia ha un grande nemico: la mortificazione della vita. La vita, in sostanza, presa per un verso stupido e banale. È per questo, visto che si tratta di lingua, che nel pieno della pratica compositiva i poeti hanno immancabilmente riconosciuto il loro primo avversario nelle frasi fatte, negli slogan, nei luoghi comuni, nei cliché. Gli slogan di coloro che pretendono di semplificare la realtà congelandola in poche, incontestabili parole; ma anche i propri slogan, l’espressione poetica che si fa automatica, che diventa maniera, modalità precostituita, gergo poetico. Montale, Zanzotto, la Szymborska, Brodskij, hanno fatto considerazioni molto pertinenti al riguardo. La questione si potrebbe allora riassumere nel modo che segue: una buona poesia, non importa se in modo più o meno esplicito, si muove sempre in direzione opposta al pregiudizio.
Così, davanti al titolo del nuovo libro di poesie di Giancarlo Majorino, Slogan profondi (La Vita Felice), viene subito da chiedersi se e come una poesia possa essere uno slogan, ma anche a sua volta come uno slogan possa essere profondo. Si tratta infatti di un’«operetta», come la definisce l’autore in una breve nota, composta da soli slogan (profondi) della lunghezza di uno, due, tre versi al massimo. Majorino dà anche ragione dell’idea originaria di questo curioso libretto, scritto «astutamente invadendo con una guarnigione di audaci versi propri, leggibili, eventualmente assimilabili senza troppa fatica, l’enorme campo della comunicazione scorrevole, della pubblicità».
Il senso vero dell’operazione si trova nell’avverbio: astutamente. Lo stesso titolo del libro, del resto, è un ossimoro, perché uno slogan è per definizione qualcosa che si esaurisce in superficie. L’astuzia del poeta, allora, è stata quella di praticare il controsenso, vale a dire di percorrere sempre nelle due opposte direzioni la tensione tra superficie e profondità, tra pregiudizio e conoscenza. In sostanza, la capacità di aggirare il nemico, di rovesciare lo slogan in poesia e di portarlo, come suol dirsi, a casa, è stata quella di servirsene in modo strumentale, utilitaristico, come Brecht a suo tempo ha indicato. Il che significa che dalle frasi fatte il poeta si è comunque fatto attraversare, che ne è divenuto entro un certo limite complice. Non sarebbero slogan, altrimenti.
L’ironia, i procedimenti antifrastici, il paradosso, l’arguzia, la disposizione ludica, il rovesciamento, e dunque, con una parola abusata, il cortocircuito tra linguaggio e pensiero, costituiscono di necessità gli assi portanti di queste poesie. Majorino parte sempre da materiali noti, che il lettore non può non avere già preconfezionati, già belli e pronti per l’uso in qualche parte della propria mente. L’organizzazione formale di queste poesie è dunque imitativa: parole e motti ricorrenti, il ritmo della frase, la disposizione dei componenti, la minima eppure discriminante struttura retorica, la pasta linguistica, la cadenza, la natura sintetica della significazione, o più propriamente del messaggio. Di volta in volta lo slogan profondo fa centro su una o più di queste possibilità. A volte, ad esempio, è la sprezzatura gergale il criterio-guida per una particolare asserzione: «Scrivere è uno dei pochi mestieri che dentro sei tranquillo/ gli altri che ridono per denaro il contrario». Altre volte sono frasi d’uso a venire in modi diversi capovolte, come «niente gratis» (che rovescia e rende in certo modo sapienziale il consueto «tutto gratis»), oppure «“non riesco a gestire tutto” (bimbo a otto anni)», o ancora «“incontrarsi e dirsi addio”/ meglio di no».
Non sfuggirà l’importanza della critica al motivo economico quale misura di tutte le cose. Da questo punto di vista Slogan profondi s’innesta sulla precisa sostanza politica che ha distinto fin dall’inizio la poesia di Majorino, e che ha trovato nella sua particolare sensibilità linguistica, come aveva subito visto Giovanni Raboni, sia uno strumento d’analisi sia un antidoto verso il rischio dello schematismo ideologico. Majorino non solo ha, come i poeti debbono avere, orecchio, ma ha saputo ascoltare e pensare la società in cui viviamo, a partire dalla grande metropoli neocapitalista, la Milano in cui è nato nel 1928, di cui negli anni, anzi nei decenni, ha registrato e interpretato le parole e le voci, le immagini di trionfo e di decadenza, quasi sempre indistricabilmente congiunte.
In uno dei suoi passi più spesso ricordati, Ludwig Wittgenstein dice che la parola è la superficie di un’acqua profonda. Questo libro sembra dargli ragione. Dopo ogni versetto bisogna fermarsi, pensarci un po’, far reagire le parole per andare almeno un poco in profondità. È necessario percorrere l’ossimoro, le sue tensioni, la sua ambiguità, la sua anche minima energia semantica. Così, una volta raggiunto il fondo, potremo riconoscere di trovarci ancora una volta in uno slogan. E viceversa, fortunatamente.