La Lettura, 6 marzo 2016
Immaginando di vivere su Marte
Sheyna Gifford non risponde alle mail della «Lettura» da 14 ore perché è impegnata a proteggersi da una tempesta di radiazioni che ha colpito la base. Insieme con gli altri cinque membri dell’equipaggio, la dottoressa californiana (con lauree anche in neuroscienza, biotecnologia e giornalismo) partecipa da agosto alla missione Hi-Seas della Nasa: il più grande progetto di simulazione della vita su Marte mai realizzato fino a oggi in Occidente – l’agenzia spaziale russa aveva finanziato nel 2010 una missione di 520 giorni che ha provocato diversi casi di depressione nella crew.
Per un anno, sei non-astronauti provenienti da background diversi – un biologo, un’idrologa, due ingegneri, una dottoressa-giornalista e un architetto – sono chiusi in una cupola bianca di 80 metri quadrati sul vulcano Mauna Loa alle Hawaii, a un’altitudine di 2.500 metri, circondati solo da superficie lavica e con accesso limitato – sempre con indosso la tuta spaziale – all’esterno. Hanno due obiettivi: sopravvivere, e convivere in un habitat costruito sul modello del Pianeta Rosso.
Gifford, che collabora dal 1997 con la Nasa, ha anche il compito di parlare con i giornalisti. La comunicazione avviene solo via mail e con un ritardo di venti minuti sul tempo terrestre, scarto che punta a ricreare la distanza temporale tra Marte e il nostro pianeta. È stata scelta tra 150 candidati che hanno presentato domanda per l’esperimento. D’altronde, spiega, dagli anni Cinquanta a oggi – nonostante la fine della guerra fredda – il numero di giovani che sognano di diventare astronauti è più che raddoppiato.
Marte non è solo tornato a essere un’ossessione cinematografica (vedi The Martian di Ridley Scott: sette nomination agli Oscar) ma anche un obiettivo concreto di conquista.
Il ritorno di Scott Kelly sulla Terra dopo 340 giorni nello spazio è stato celebrato come un ulteriore passo verso Marte. Siamo davvero così vicini?
«Le missioni di atterraggio dovrebbero cominciare intorno al 2030, direi che bisogna prepararsi sul serio».
Il vostro progetto rientra nella preparazione. In cosa consiste?
«Lo scopo della nostra missione è studiare le interazioni sociali e le performance umane di un gruppo di lavoro che è isolato e confinato come saranno gli astronauti su Marte. La nostra giornata è piuttosto simile a quella degli abitanti della Terra con alcune, significative, differenze. Come moltissimi, mi sveglio e controllo la mia mail. A differenza loro, però, la mail è l’unico modo con cui colleghi, amici, mio marito, i medici possono comunicare con me. Prima di cominciare le attività di giornata, indosso sensori e monitor. Il modo in cui ci muoviamo, il livello della luce e del suono, quanto e come interagiamo tra di noi: tutto viene costantemente monitorato. Indossate le apparecchiature, faccio colazione, un po’ di esercizi e poi procedo con gli esperimenti».
Che tipo di dati state raccogliendo?
«È molto eccitante l’idea di fornire informazioni fondamentali per il futuro dell’umanità. Qui è come se fosse una start-up: la start-up di una colonia su Marte! Raccogliamo informazioni vitali per la sopravvivenza sul Pianeta Rosso, ma valide per tutti i gruppi di lavoro composti da professionisti di alto profilo e con grandi ambizioni. Cerchiamo di capire i possibili motivi di stress, ciò che è in grado di rilassarci, come funziona la nostra comunicazione e i fattori in grado di alterare le dinamiche di relazione. Ma stiamo anche prendendo dati sulla salute, sulla produzione e il consumo di cibo, la microbiologia dell’ambiente. Abbiamo aspettato cinque mesi per avere la prima coltura di pomodori. Il nostro astrobiologo ha definito il giorno del raccolto Le Grande Jour de la Tomate, per me invece è stata la cosa più vicina a un miracolo che avessi mai visto!».
Che idea si è fatta della vita su Marte?
«Sarà molto simile a quella di frontiera: poche persone iper-selezionate e coraggiose che combattono per la sopravvivenza con pochissimi mezzi a disposizione. Lassù dipenderemo molto gli uni dagli altri, un valore che la nostra società sembra aver dimenticato... È così difficile e costoso trasportare su Marte esseri umani che quelli che ci arriveranno dovranno vivere, nonostante la tecnologia, come alle origini della civiltà: ognuno nella comunità marziana avrà un ruolo fondamentale. Dovranno tutti conoscere e prendersi cura degli altri se vorranno sopravvivere».
Ha dichiarato che il sentimento che ha provato dopo mesi di co-abitazione forzata, oggi che siamo a metà dell’esperimento, è la solitudine.
«Sì, ma non è mai stato quello predominante. Ciò che prevale è una sensazione di interdipendenza totale: queste cinque persone sono tutto ciò che ho al mondo in questo momento».
Che tipo di problematiche stanno emergendo?
«Molti di noi sentono la difficoltà dello stare lontano da casa, soprattutto quando si verificano grandi eventi: compleanni, matrimoni. Altri soffrono l’assenza dell’ambiente “terrestre”: il vento e il sole sul viso, per esempio. Manca anche a me, anche se il fatto di aver passato tanti anni chiusa in biblioteca a studiare mi aiuta a sopportare meglio la situazione. Certo, una delle prime cose che farò fuori di qui sarà nuotare nell’oceano, correre per chilometri all’aria aperta, fare escursioni nei boschi con mio marito. Mi manca molto. Mi conosce da dieci anni e abbiamo deciso insieme il nostro stile di vita... Adesso è come se avessi ricominciato tutto daccapo, solo che invece che iniziare una relazione con una sola persona, devo farlo con cinque!».
Cosa le manca di meno della «Terra»?
«Il traffico, la pubblicità, le suonerie dei telefoni cellulari – soprattutto nei luoghi dove non dovrebbero essere consentite —, la meschinità e la politica».
Lei è ufficialmente la responsabile medico della crew. Che responsabilità comporta?
«Nella mia professione sono abituata, che sia un grande ospedale o una piccola clinica, a essere continuamente circondata da altri medici. Qui sono l’unica e tecnicamente sono tutti miei pazienti, sebbene siano molto in salute. La più grande speranza per ogni dottore è essere in grado di risolvere i problemi: avere la risposta giusta, gli strumenti necessari e il tempo per fare la differenza nelle vite dei nostri pazienti. Qui, come nello spazio, gli strumenti sono davvero limitati, ma ho imparato che quello che apparentemente può sembrare un limite enorme, può diventare per quelli che operano nello spazio una straordinaria opportunità per ricordare le basi della medicina. Le vere emergenze richiedono grandi e attrezzate sale operatorie, trasfusioni di sangue e dialisi. Tuttavia per la maggior parte degli interventi medici c’è bisogno invece di comprensione, pazienza, accuratezza e riguardo. Anche se qui non ho una farmacia, uno staff che mi aiuti e un laboratorio, ho riscoperto tutte queste qualità».
Sul suo blog (livefrommars.life) ha scritto che le piante, i giochi da tavolo, gli strumenti musicali e i peluche hanno assunto una funzione molto importante per l’equipaggio.
«Come per miliardi di persone sulla terra, che però – a differenza nostra – hanno a disposizione tante altre occasioni di intrattenimento. Non potendo stare su Facebook, seduti in un caffè o guardare un film, prenderci cura delle piante come giocare o suonare insieme sono diventati essenziali per il nostro benessere».