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 2016  marzo 05 Sabato calendario

Il prezzo del petrolio rimbalzerà ancora?

Il prezzo del petrolio è il bastone, la Bce di Mario Draghi e la Fed di Janet Yellen le carote. Su queste basi, ovvero sulla terza settimana di recupero del barile e sulle attese dei meeting del 10 e del 16 marzo delle due banche centrali, si è finalmente innestata la prima significativa reazione dopo il traumatico avvio del 2016, in pesante rosso fino al minimo dell’11 febbraio e poi incerto poco sopra i minimi fino alla fine dello scorso mese.
Il rimbalzo, insomma, è partito, come dimostrano i numeri del Ftse Mib di Piazza Affari che era arrivato a perdere oltre il 25% dai valori di inizio 2016 a quota 15,773 e che da quel livello ha già recuperato quasi il 16% ridimensionando il passivo da inizio anno al 14,6% (venerdì 4 ha chiuso a 18.278). All’interno del paniere MF Italy40 che racchiude le blue chip di Milano ci sono solo due segni più (Moncler, Snam ) e due pareggi (Ferragamo  e Terna ) nel saldo 2016, ma appare più significativo il recupero dai minimi di alcune delle azioni più bastonate nelle prime settimane con rimbalzi superiori al 30% per Fca, Bper, Saipem, Unicredit  ed Exor e superiori al 20% per altri 14 titoli.
Insomma, gli elementi che erano stati indicati come ragioni della caduta – ossia il rallentamento della Cina, il timore di nuovi sforzi patrimoniali all’orizzonte delle banche di Eurolandia (poi smentiti e chiariti dall’Eurotower), le incertezze sulla sostenibilità del tasso di crescita degli utili da parte della Corporate America e la crisi dilagante nei Paesi emergenti – e che avevano improvvisamente convinto gli investitori che i listini azionari presentavano più rischi al ribasso rispetto alle chance di rialzo, dando il via alle vendite, sono stati riposti in un cassetto.
E così si è arrestato anche l’avvitamento al ribasso generato dagli algoritmi di trading, che esasperano i movimenti dei listini.
Al di là degli algoritmi e dei sistemi automatici, è stato il petrolio la variabile scatenante della super volatilità dei primi due mesi sui mercati: il cedimento dei prezzi minimi del 2009, tra 34 e 33 dollari al barile, avvenuto nelle prime battute dell’anno da un lato ha fatto squillare un nuovo allarme sui conti già precari in cui versano molti Paesi emergenti produttori di materie prime, Brasile in testa, e dall’altro ha imposto ai Paesi che hanno costi di produzione petrolifera più elevati rispetto alle quotazioni di mercato di far fronte allo squilibrio economico attingendo risorse finanziarie dal proprio salvadanaio, ovvero dai fondi sovrani, che a loro volta hanno dovuto vendere asset (tra cui le azioni) per far fronte alle necessità di cassa dei loro governi.
Il risultato è stato che dall’inizio di dicembre a fine febbraio, l’S&P500 e il greggio hanno terminato la seduta muovendosi nella stessa direzione in 44 su 60 giorni di contrattazioni, ovvero più di due terzi delle volte. Come se non bastasse, si può osservare la perfetta coincidenza temporale tra il doppio minimo a quota 1.810 segnato dall’indice Usa il 20 gennaio e l’11 febbraio e i due minimi più profondi, rispettivamente a 27,57 e a 26,05 dollari al barile per il crude oil (Wti) segnati nelle stesse giornate. Non stupisce, quindi, che il prolungamento del recupero del petrolio, avvenuto nella settimana appena conclusa, abbia consentito da un lato il recupero di alcune importanti valute emergenti, tra cui real brasiliano e peso messicano, e dall’altro il superamento dell’importante ostacolo posto a quota 1.950 dell’S&P500 avvenuto in barba al contestuale rafforzamento del dollaro: con la conquista di questo target l’indice americano ha completato la figura di doppio minimo rialzista il cui obiettivo, proiettando verso l’alto la distanza presente tra i due minimi di gennaio-febbraio e il picco intermedio realizzato appunto a quota 1.950 a inizio febbraio, può essere stimato attorno a 2.080, con un significativo ostacolo intermedio tra 2.020 e 2.040 e uno precedente, meno marcato, a quota 1.990 punti sul cui superamento si è praticamente conclusa la settimana.
Ora che Wall Street ha fatto la sua parte, la palla torna nel campo del greggio: l’ostacolo da varcare passa a quota 34,5-35 dollari al barile, attaccato nella seconda parte dell’ottava scorsa, che corrisponde al picco precedente di Wall Street lasciato alle spalle martedì 1, il cui guadagno aprirebbe nuovi spazi di recupero con obiettivo successivo individuabile sul livello a 42-43 dollari e una resistenza intermedia a quota 40, riportando in verde già in quest’ultimo caso la performance del 2016. Tecnicamente è ammesso un momentaneo arretramento al massimo fino a quota 32,5 per tirare il fiato e riprendere rincorsa, senza che questo incida sul trend rialzista di breve partito il 12 febbraio, mentre al di sotto di quota 32 la spinta del petrolio inizierebbe a scricchiolare, tornando a vacillare sotto 30,5 dollari al barile.
Il ritorno di un po’ di appetito per il rischio, testimoniato dal passo indietro effettuato dai corsi del Bund sotto la spinta dei primi realizzi, ha alimentato la domanda di azioni anche in Asia, dove il Nikkei è tornato sopra l’importante soglia a 16.700 mentre il Sensex indiano è volato fino al test fondamentale a quota 25.000. In questo caso hanno anche giocato a favore le aspettative sulle principali banche centrali occidentali, Fed e Bce, che hanno alimentato il rafforzamento del dollaro, giunto a metà settimana fino alla soglia di 1,08 contro euro: le nuove mosse in occasione del meeting del 10 marzo, di fatto ventilate dall’Eurotower, alimentano sia l’attesa di un incremento di 10 miliardi al mese nel programma di acquisto di bond sul mercato, magari ampliando la gamma di attività acquistabili nell’ambito del Qe in atto, e sia una nuova riduzione di 10 centesimi del tasso, già negativo, sui depositi effettuati dalle banche (dal -0,30 al -0,40%); il sogno nel cassetto degli investitori sarebbe, in aggiunta, la possibilità di acquisto da parte della Bce degli asset deteriorati che pesano sui bilanci degli istituti, attività di fatto impossibile e casomai concepibile in un’ottica di strumenti collaterali forniti in garanzia di specifici prestiti erogati dalla banca centrale, se ci fossero dei soggetti in grado di cartolarizzare tali attività secondi i requisiti (magari allentati) stabiliti dalla Bce. La gran parte dei benefici tangibili offerti dal Qe è infatti già acquisita dai mercati finanziari (restringimento degli spread nell’Eurozona, riduzione dei rendimenti ai minimi termini su tutta la curva e svalutazione della moneta unica), mentre l’incertezza della ripresa economica e dell’occupazione, connessa a una domanda interna tutt’altro che vivace e dunque a un’inflazione sempre più lontana dal target del 2%, dimostrano che il problema insoluto riguarda il mercato del credito: da un lato scarseggia la domanda di finanziamento da parte di aziende e famiglie, dall’altro lato le banche incontrano dei limiti a livello di requisiti patrimoniali e di qualità del credito nell’erogare prestiti remunerativi alla clientela. L’aumento di 10 miliardi al mese del Qe programmato almeno fino a marzo 2017 e un tasso ancora più negativo dei depositi presso la Bce avrebbero dunque un effetto solo temporaneo sui mercati azionari, giusto per arrivare al meeting della Fed del 16 marzo o poco più, mentre sarebbe di carattere più duraturo sul mercato obbligazionario mantenendo stabilmente i corsi sui livelli attuali, o anche un po’ superiori, e quindi mantenendo parallelamente compressi i rendimenti.
Anche sul mercato dei cambi l’effetto Bce, salvo sorprese in un senso o nell’altro, potrebbe essere già scontato nei prezzi: il minimo dell’euro/dollaro a 1,08 toccato in settimana costituirebbe infatti un possibile livello di equilibrio nel caso in cui l’Eurotower ricalchi le attese e contemporaneamente la Federal Reserve rimandi a maggio la valutazione sul secondo rialzo del costo del denaro, come tutti si aspettano. In questo scenario, petrolio e Cina permettendo, i mercati azionari potrebbero trovare un po’ di rasserenamento fino marzo inoltrato, anche se in realtà il dopo-Fed lascerà molto probabilmente immutate le incertezze di oggi. Nel frattempo l’S&P500, qualora il Wti crude oil confermasse il guadagno della soglia a 35 dollari al barile, avrà la strada aperta fino al target a quota 2.080, previo superamento dell’ostacolo intermedio in area 2.020-2.040, stimolando il Dax verso la chiusura del gap ribassista lasciato aperto tra 10.485 e 10.743 nella caduta del 4 gennaio; gap che passa tra 21.194 e 21.418 del Ftse Mib, con un importante ostacolo intermedio ben visibile tra 19.800 e 20.300 punti. Quest’ultima quota costituisce dunque l’obiettivo più a portata di mano per il mese di marzo, mentre 21.418 è da intendersi come lo scenario più ottimistico.
In questa prospettiva a Piazza Affari vanno tenuti d’occhio innanzitutto i titoli più reattivi legati al petrolio, tra cui Tenaris  appare come la miglior rappresentante al prezzo di una volatilità sostenuta, seguiti dai bancari graficamente più solidi, come Intesa Sanpaolo  nella versione ordinaria o anche di risparmio, a cui possono essere affiancati istituti più aggressivi in termini di potenziale rialzista di breve periodo, così come di rischio, come Unicredit  e soprattutto Bpm. L’attenzione non va comunque distolta dalle mete più conservative, utility in testa, che possono rimanere indietro nei momenti di maggiore propensione al rischio per poi recuperare nella fasi dove domina l’incertezza, senz’altro frequenti nel corso del 2016: tra queste spicca Hera, sia per l’impostazione grafica e sia per i dividendi attesi, seguita da Snam rete gas  e infine da Enel.