il Fatto Quotidiano, 5 marzo 2016
Cinquemila pessimi motivi per non andare in guerra in Libia
Mentre i nostri militari studiano le opzioni d’intervento in Libia e approntano le forze ritenute necessarie, sentono il dovere di lasciar trapelare indiscrezioni su quanto in allestimento. Ai media viene propinato il solito stampone ben noto ai pianificatori militari: la missione in Libia sarà di livello divisione (come tutte quelle in atto) con aerei che volano, barche che navigano, soldati che marciano, incursori che s’infiltrano, genieri che fanno esplodere ordigni e trasmettitori che trasmettono alle dipendenze dell’ovvio Comando Operativo Interforze (Coi). Non una parola su cosa fare, in quale settore e con quali fini, salvo la generica lotta all’Isis. Un aspetto nuovo e per certi versi preoccupante è il condizionale sugli altri partecipanti alla coalizione. Il che significa che la struttura preparata è indipendente da quella degli alleati, sempre che ci siano, e forse a prescindere. Gli stati maggiori, da bravi esecutori, stanno cercando di dare una mano a un governo strattonato da tutte le parti.
L’ambasciatore americano John Phillips ha dichiarato di aspettarsi dall’Italia 5.000 uomini. Questo numero, detto da lui, è diventato una specie di obbligo, e infatti la pianificazione militare parla di 4-5000 uomini. È lo stesso numero annunciato dal ministero della Difesa nella sua prima fase di rambismo subito seguita da quella di pacifismo. Un numero che è una specie di banalità per una nazione che ha quasi 300.000 uomini in armi e che negli ultimi vent’anni è arrivata ad avere 10mila combattenti schierati all’estero.
Dal suo punto di vista, l’ambasciatore Philips ha ragione: gli americani sono capaci di fare cose inaudite soltanto perché hanno uomini pronti a farle. Ma noi non siamo americani e l’ambasciatore lascia trasparire l’insofferenza nei riguardi di un Paese e di una politica che continuano a fare annunci di successi “straordinari” e rivendicano una leadership militare in campo internazionale indugiando nelle chiacchiere. Sfortunatamente non c’è alcuna strategia libica perchè non c’è alcuna strategia nazionale. Abbiamo smesso di considerare tra gli strumenti della politica quelli militari che non necessariamente devono svolgere aggressioni armate, invasioni o missioni di combattimento.
Semmai è ancora una volta una questione di “sfiga”: il nostro governo ha puntato sulla leadership delle operazioni militari nel Mediterraneo pensando ai “barconi”. Ha parlato di bombardarli, di eliminarli con i droni e sabotarli con gli incursori, mentre le navi militari avrebbero salvato i superstiti. In queste operazioni il ruolo guida poteva essere svolto con facilità e tanto da guadagnare in prestigio. La iella ha voluto che nello stesso periodo i conflitti provocati dall’insipienza nostra e dei nostri alleati perdessero la patina romantica della rivoluzione colorata o profumata ed emanassero il lezzo delle guerre più odiose. Nessuno si è trovato preparato, ma mentre alcuni Paesi hanno reagito subito con le armi, da noi è prevalsa la “moderazione”. Le obiezioni agli interventi armati non riguardano la palese mancanza di strategia ma l’assenza di “presupposti” (si presume legali) per l’intervento, il rischio di avere morti, di esacerbare l’Isis, di danneggiare i nostri impianti petroliferi o di diventare obiettivi di attacchi terroristici. Tutte cose giuste, ma che non abbiamo considerato quando siamo andati in Somalia, in Afghanistan, in Iraq e quando, nei Balcani e nella stessa Libia.
La sfiga ha fatto scomparire anche il paravento che ci ha consentito di fare guerre altrui spacciandole per interventi umanitari o di polizia internazionale: la Nato. Seguendo la linea degli Usa e dei paesi nordici, la Nato si è sfilata dalle operazioni nel Mediterraneo lasciando intendere che le crisi del bacino sono affari “locali” degli Stati del Sud e che semmai occorrerebbe agire in Medioriente contro la Russia, la Siria e l’Iran. La stessa politica è perseguita dalla Turchia che fa di tutto per trascinare la Nato in un confronto diretto con la Russia. Le nazioni più sensibili allo stile coloniale, Gran Bretagna e Francia, o quelle neo-coloniali o autarchiche, come Egitto, Marocco, Arabia Saudita e Turchia hanno buon gioco nel dettare le proprie agende con il sostegno dell’intelligence e della copertura aerea Usa.
Il colmo della sfiga per i nostri governanti è che gli americani hanno già deciso cosa fare della Libia: se non si realizza un governo di unità nazionale o se questo non supera la prova della stabilizzazione (cosa data per certa) la Libia sarà smembrata. Le aree sotto il controllo delle milizie di Tobruk e Tripoli saranno prede di guerra di Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia. Il resto del Paese rimarrà il guazzabuglio distribuito fra i 140 clan che di fatto lo tengono in ostaggio. I nostri 5.000 soldati dovrebbero andare lì e vedersela con tutti, comprese le bande dell’Isis. Auguri.