il Fatto Quotidiano, 5 marzo 2016
«Un unico, grande giornale…» diceva Nanni Moretti in Aprile
Nel 1998, in una scena memorabile di Aprile, Nanni Moretti va in edicola e chiede tutti i giornali e le riviste che trova: “Salve, Salute, Come stai, Il mio giardino, Gardenia, Quattroruote, Quattrozampe, Cani-una rivista di razza, Essere, Volare, Correre, Il mio condominio, Scarpe e sport, Le specialità di Lisa Biondi, Posta Magazine, Ville e casali, Cose antiche, Case antiche, Sirio, Astra, Progresso fotografico, L’Espresso… Se posso, ordinerei le copertine degli ultimi 10 anni, mi servono per una ricerca… Bolina, Cicloturismo, Corriere della Sera, Il Gommone, Montagna, Legno e pietra, la Repubblica, La Manovella, Ruote a raggio, Bell’Italia, Airone…”. Poi riappare a casa sua, sdraiato su un enorme collage di pagine, titoli e articoli ritagliati: “Un capitolo del mio documentario sull’Italia è dedicato al giornalismo. Comincio subito a tagliare e ritagliare, incollare e cucire, e mi accorgo che i giornali sono tutti uguali. E soprattutto usano e si scambiano sempre gli stessi giornalisti. C’è quello che scrive di politica su un quotidiano, di cinema su un settimanale di sinistra e di letteratura su un mensile di destra. C’è quell’altro che scrive contemporaneamente sul Corriere della Sera, su un settimanale femminile e su un mensile delle Ferrovie dello Stato. E naturalmente vignette e satira politica ovunque, perché la satira non ha padroni, quindi sta bene sotto ogni padrone. Insomma, un unico, grande giornale…”. A quel punto Nanni si sdraia e si avvolge nel Giornalone Unico arrotolato come un tappeto.
Ora, delle due l’una: o Moretti è un profeta, un indovino; oppure Elkann, i De Benedetti e Perrone gli hanno rubato l’idea, quando han deciso di fondere i tre gruppi che controllano Stampa, Repubblica e Secolo XIX. Ciò che Nanni 18 anni fa non aveva previsto è che la sua visione satirica sarebbe diventata realtà e, soprattutto, che l’operazione StampubblicaXIX sarebbe stata accolta dal silenzio della cosiddetta politica e dall’entusiasmo delle grandi firme delle tre testate, indaffaratissime a spiegarci quanto sono buoni i padroni. Come se si trattasse della ratifica di una realtà già esistente da tempo, visto che la grande stampa è quasi tutta governativa per definizione, scrive (e non scrive) quasi sempre le stesse cose e infatti si scambia direttori e firme perché sono perfettamente intercambiabili. Nei soffietti al Mega Editore Galattico firmati dai cari inferiori, si sostiene persino con grande naturalezza – come fosse la cosa più ovvia del mondo – la seguente tesi.
E cioè che Repubblica e Stampa erano concorrenti solo per finta, perché Carlo Caracciolo era il fratello della moglie dell’Avvocato, ergo ciò che gli Agnelli non potevano far scrivere alla Stampa lo davano a Repubblica. E vissero tutti felici e contenti.
Ieri intanto, forse senza volerlo, il Corriere della Sera si è autodenunciato come la madre di tutto gli slurp. L’ha fatto nel bell’inserto antologico per celebrare il suo 140° compleanno. Nell’editoriale d’esordio il primo direttore Eugenio Torelli Viollier, il 5-6 marzo 1876, si rivolge al lettore dandogli del tu e gli promette un giornale che dice “pane al pane”, che “parla chiaro”, che distingue tra notizie e opinioni (“un fatto è un fatto ed una parola non è che una parola”), che non fa mistero della sua linea politica (“noi siamo conservatori. Conservatori prima, moderati poi…”). Poi però, come posseduto anzitempo dai demoni di Silvio e Matteo, esorta “le persone savie” a “lasciare stare i brontoloni, gli ipocondriaci, gli atrabiliari, che antepongono i moderati ai radicali unicamente come preferirebbero la febbre terzana al colèra” e i “giornali dello scandalo e della calunnia”. Un editoriale che la dice lunga su cosa sia sempre stata la nostra “grande stampa”. E che oggi potrebbe essere scritto dai direttori di quasi tutti i giornali italiani. Basta sostituire brontoloni con gufi, ipocondriaci con professoroni, atrabiliari con soloni, radicali con populisti, scandalo con giustizialismo e calunnia con antipolitica.
Accanto all’editoriale di Torelli, la cronaca dell’8 maggio 1898 sulla sanguinosa repressione delle truppe del generale Bava-Beccaris contro i milanesi affamati che chiedevano pane. Cronaca si fa per dire, con tanti saluti alla separatezza tra i fatti e le opinioni su un giornale che si diceva conservatore e moderato per non confessare di essere governativo a prescindere. “Purtroppo ieri mattina si ebbero a deplorare a Milano nuovi disordini… Bene inteso, la questione del pane passata in seconda linea, anzi qui non vi fu mai. Essa servì di pretesto agli organizzatori dei disordini per ispingere giovani incoscienti, operai mal consigliati, donne, ragazzi ed eccessi che a Milano non si sarebbero mai creduti possibili… Dobbiamo scrivere una parola sincera per i nostri ufficiali, per i nostri soldati. Essi furono d’una pazienza, d’una resistenza, d’una disciplina davvero ammirevoli” contro quelle “torme di ragazzacci”, “canaglie”, “vigliacchi”, “donne ancor più scalmanate”, “minacciosa marea” armata financo di “tegole”, di “una scala” e di “pezzi di legno”. Fu così che i militari furono costretti, obtorto collo, a prendere la folla a cannonate. Ma questo il Corriere non lo disse: a un certo punto “scoppiò la fucilata”, non si sa bene da parte di chi. Poi la scena si sposta negli ospedali, dove “vengono portati” 17 morti, chissà mai ammazzati da chi. In realtà i caduti furono 80 e i feriti 450, tutti fra i manifestanti. Oggi Bava Beccaris non c’è più (anche se ogni tanto resuscita, come al G8 di Genova). Ma, tolto Beccaris, resta la bava.