La Stampa, 6 marzo 2016
Ottant’anni di Olimpia, la Ferrari del basket italiano
Undici trofei da giocatore e due da dirigente legittimano la candidatura di Dino Meneghin a Mister Olimpia nel giorno in cui Milano festeggia l’80° compleanno. Ma a fare la differenza è il periodo in cui SuperDino ha impresso il marchio nel club più titolato d’Italia, gli Anni ’80 in cui – per il grande pubblico – basket significava Milano, Dan Peterson e Meneghin. «Da vice presidente di Fiba Europe viaggio spesso – dice il 66enne che dal 2003 è nella Hall of Fame di Springfield – e trovo ancora appassionati, italiani e stranieri, che mi domandano di quel periodo». Quando l’Olimpia era la «franchigia europea della Nba» e conquistava la Milano da bere giocando a San Siro (nel palazzo crollato sotto la neve nel 1985). Uno status che l’Olimpia targata Armani vuole ritrovare e in attesa di Andrea Bargnani (promesso sposo per il 2016/17) l’EA7 sorride grazie al rientro di Alessandro Gentile nel match delle 18 (Rai Sport 1) contro Torino, ultima in classifica e vittima designata.
Da simbolo dell’Olimpia, a quale realtà sportiva Meneghin accosterebbe Milano?
«Alla Juventus e alla Ferrari, altre entità che considerano il secondo posto un insuccesso. Servono uomini speciali per indossare certi colori, perché conquistare un titolo è relativamente facile, più difficile è vincere sempre e lasciare un segno, come chiesto dall’Olimpia, che in 80 anni ha creato un mito».
Se dovesse indicare i principali uomini speciali, chi nominerebbe?
«È una lista troppo lunga e si parte dagli anni del Simmenthal di Rubini, Gamba e Bogoncelli, che importarono l’idea americana anche nell’abbigliamento, con le tute di raso rosse, le magliette sgargianti. La squadra di oggi può raccogliere l’eredità: Alessandro Gentile avrebbe trovato posto con noi. E lo stesso Giorgio Armani merita di essere accanto agli altri grandi patron dell’Olimpia, come Bogoncelli e Gabetti: è l’ultimo grande mecenate del basket».
Milano era nel suo destino: a 12 anni si presentò involontariamente al primo allenamento a Varese con le scarpette rosse. Ma come è diventato emblema dell’Olimpia dopo esserne stato nemico?
«Giocando con lo spirito Olimpia, di chi non molla mai: non a caso chi ha vissuto quegli anni nell’ambiente milanese non ricorda una finale vinta in particolare, ma la rimonta dal -31 contro l’Aris Salonicco di Galis, nel 2° turno di Coppa Campioni. E dire che la mia avventura milanese non era iniziata bene...».
Colpa della diffidenza di chi non le perdonava i trionfi a Varese e la rivalità con Art Kenney?
«No, quella potevo metterla in conto. Non avevo previsto l’infortunio al ginocchio e il nostro -45 a Pesaro: potevamo crollare e invece sotto la guida di Dan Peterson vincemmo lo scudetto 1982 proprio contro Pesaro. Quel trionfo mi garantì il “bollino” di leader del Billy».
Ha nominato Peterson, in quegli anni allenatore, telecronista e volto della pubblicità: qual era il suo segreto?
«Coach Dan portò il basket oltre i suoi confini, le sue squadre davano al pubblico ciò che il pubblico voleva: gioco spumeggiante e gente pronta a sputare sangue. Creava gruppi uniti, anche fuori dal campo. E non solo perché D’Antoni “doveva” fare da tassista a Peterson, che non aveva l’auto, e a Bob McAdoo, che altrimenti si sarebbe perso per Milano».
Con D’Antoni condivise l’onore della maglia ritirata, con McAdoo vinse due Coppe Campioni: sono loro i compagni indimenticabili di Milano?
«Aggiungerei Roberto Premier. D’Antoni? Quando ero a Varese, lui era l’avversario che “odiavo” di più, poi giocando al suo fianco ho capito quanto fosse speciale. Considero McAdoo il più forte, anche di Joe Barry Carroll, l’enciclopedia del pivot: Bob fu capocannoniere Nba ma si presentò da noi con umiltà e serietà incredibili».
Da ex azzurro, argento olimpico nel 1980, ed ex presidente federale, come vede il presente del nostro basket alla vigilia della rincorsa olimpica?
«Non impazzisco per il modo in cui si è evoluto il gioco: tanto tiro da tre e squadre che cambiano ogni anno. La Bosman ha eliminato le bandiere».
Un altro Meneghin che smette a 44 anni non è proponibile?
«Non è semplice. Vedo ciò che accade a Totti, che è stato straordinario ma forse, a quasi 40 anni, potrebbe pensare al ritiro. Meglio decidere in autonomia. Io decisi quando, per fortuna, avevo già vinto parecchio».
La storia dell’Olimpia invece prosegue.
«Durerà almeno altri 80 anni, ancora ricchi di trofei».