Corriere della Sera, 6 marzo 2016
Erdogan, il sultano che uccide la libertà di stampa
Venerdì notte violenta irruzione degli agenti nella sede del quotidiano Zaman, il più diffuso nel Paese. L’accusa è di «propaganda terroristica». Centinaia di persone disperse con gli idranti. Le condanne degli Usa e della Ue.
Niente Internet. I computer spenti. Il direttore Abulhamit Bilici licenziato in tronco. Nella redazione del quotidiano Zaman, presidiata dalle forze dell’ordine, è il giorno del giudizio. L’ultima copia senza censure del giornale più diffuso del Paese con una tiratura di 650mila copie è uscita ieri mattina, messa a punto in fretta e furia la sera prima dai giornalisti che vedevano fuori dalle finestre la polizia antisommossa pronta a far irruzione nella loro redazione di Istanbul. «La Costituzione è sospesa» il titolo apparso sul giornale mentre Today’s Zaman, la versione inglese, pubblicava una prima pagina nera con su scritto «Una giornata vergognosa per la libertà di stampa in Turchia. Commissariato il gruppo Zaman Media». Sotto l’hashtag #freeMediaCannotBeSilenced.
Fuori dalla redazione circa 500 persone si assiepano nonostante le cariche della polizia di venerdì notte avessero già causato diversi feriti. «La libertà di stampa non sarà messa a tacere» urlano e le forze dell’ordine tornano alla carica con gli idranti che spruzzano acqua colorata e i lacrimogeni al peperoncino.
Dalla scorsa notte, dopo la decisione del tribunale di affidarne la guida ad amministratori filogovernativi, la polizia occupa la sede del giornale, destinato al blocco delle pubblicazioni fino alla nomina di una nuova direzione. L’accusa nei confronti del gruppo Feza è di «propaganda terroristica» a favore del presunto «stato parallelo» creato dal magnate e imam Fethullah Gülen, ex alleato diventato nemico giurato del presidente Recep Tayyip Erdogan. Il gruppo possiede anche Today’s Zaman, l’edizione inglese del giornale, oltre all’agenzia di stampa Cihan, il settimanale Aksiyon e la tv Samanyolu.
Tantissime le proteste a livello internazionale. Il commissario europeo all’Allargamento, Johannes Hahn, si è dichiarato «estremamente preoccupato» mentre il portavoce del Dipartimento di Stato Usa, John Kirby, ha definito «inquietanti» le azioni giudiziarie per mettere a tacere i media. Anche Federica Mogherini, l’Alta rappresentante dell’Unione Europea per gli affari esteri, ha richiamato Ankara al rispetto della libertà di stampa.
Il commissariamento di Zaman arriva alla vigilia di un incontro chiave tra il governo turco e la Ue sulla questione dei rifugiati, previsto domani a Bruxelles. E il presidente del Parlamento europeo Martin Schulz, in un tweet, ha assicurato di voler «sollevare questa questione lunedì con Ahmet Davutoglu». Il premier turco, però, farà di sicuro spallucce: per lui si tratta di un «processo giudiziario e non politico». Il governo «non ha interferito» ha assicurato.
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Antonio Ferrari per il Corriere della Sera
In Turchia stanno venendo meno le libertà fondamentali, e soprattutto quelle di cui il Paese andava fiero. Basterebbe un impietoso paragone. Persino durante l’ultimo colpo di Stato militare vi era maggiore libertà di oggi. Almeno nel mondo dell’informazione. Anche nei giornali di sinistra, a cominciare dallo storico Cumhuriyet, i giornalisti godevano di una certa autonomia.
Oggi, per contro, ogni critica è un reato. Il quotidiano Zaman, che riflette le posizioni di Fethullah Gülen, predicatore sunnita che vive in esilio negli Stati Uniti, non è più tollerato, va chiuso. Gülen, che un tempo era amico e sodale del presidente Recep Tayyip Erdogan, oggi è il suo più acerrimo nemico.
Gli scontri, l’assedio della polizia, i lacrimogeni, le violenze contro i giornalisti sono vergognose. Non vi sono altri termini per definirle. Dopo attacchi, denunce, intimidazioni e arresti, siamo dunque arrivati alla più brutale esecuzione della volontà del capo, del nuovo sultano, che non ha neppure idea di quanto fossero ben più tolleranti i sultani veri, quelli che fecero grande l’impero ottomano. Prima delle ultime elezioni, Erdogan aveva zittito o fatto occupare i media che lo criticavano. Contro Cumhuriyet, che aveva svelato con un video non smentibile i traffici di armi, con tanto di scorta dei servizi segreti, diretti ai ribelli siriani ma soprattutto all’Isis, la scure del potere è stata spietata. La Turchia è un importante alleato della Nato. La Germania, dove vivono quasi 3 milioni di turchi fa l’impossibile per ottenerne la collaborazione sul problema dei profughi. L’Italia ha quasi mille imprese nel Paese. Ma tutto questo non può consentire di chiudere gli occhi davanti agli attentati contro la democrazia. Se si accetta silenziosamente lo scempio, in nome della realpolitik, si commette un atto di inaccettabile complicità.
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Monica Ricci Sargentini per il Corriere della Sera
Ha fatto sentire la sua voce un anno fa dalle colonne del New York Times : «È veramente triste vedere cosa è diventata la Turchia negli ultimi anni. Poco tempo fa era l’invidia della maggior parte dei Paesi musulmani, una candidata possibile dell’Unione Europea, una democrazia funzionante nel rispetto dei diritti umani. Questa storica opportunità è stata distrutta dal partito di governo l’Akp». Parola di Fethullah Gülen, il teologo musulmano diventato l’acerrimo nemico di Recep Tayyip Erdogan che lo accusa di aver ordito un colpo di Stato ai suoi danni. Lui vive in Pennsylvania, dove si è rifugiato nel 1999 perché inviso ai governi laici di allora, ed è a capo di un movimento, chiamato Hizmet, che conta milioni di adepti e che vanta una fitta rete internazionale di scuole, think-tank, tv e giornali considerata da molti il più grande network islamico del mondo. L’organizzazione, che vuol dire «servizio», non ha una struttura formale, né un elenco di iscritti. Gülen comunica soltanto con sermoni registrati che vengono diffusi sul suo sito web. L’obiettivo ufficiale è di «lavorare per il bene comune» diffondendo un messaggio basato sull’altruismo, il duro lavoro e l’educazione nelle zone più disagiate del mondo dall’Iraq al Kazakistan. E per questo «messaggio di tolleranza» è stato scelto da Time come una delle 100 persone più influenti del 2013.
Di dati ufficiali sull’organizzazione non ce ne sono ma si parla di più di mille scuole, tutte che brillano per la loro eccellenza, sparse in 140 Paesi. In Kirghizistan, per esempio, il movimento controlla un’università e una dozzina di istituti superiori che sono tra i migliori a livello internazionale. In Pakistan gli studenti beneficiano di laboratori scientifici mai visti. Persino nel Nord dell’Iraq, nonostante la presenza curda, le scuole che promuovono la cultura turca sono ben accette e a loro si aggiungono un ospedale e un’università. Si finanzia grazie alle generose donazioni degli adepti, spesso uomini d’affari affascinati dal predicatore milionario.
Nel suo Paese natale, dove è stato spiccato un mandato di cattura nei suoi confronti, fino alla fine del 2013 si diceva che i suoi seguaci occupassero posizioni chiave nelle istituzioni: dalla polizia, ai servizi segreti, dalla magistratura al partito di governo. Lo stesso presidente Abdullah Gül era considerato molto vicino all’imam. Ma dopo la tangentopoli turca Erdogan ha dichiarato guerra a Gülen chiudendo le aziende a lui legate, tra cui BugunTv e Kanalturk, commissariate lo scorso ottobre, e il gruppo editoriale Feza che edita Zaman.
I suoi detrattori accusano il predicatore di avere un’agenda segreta per la creazione di un califfato e ricordano di come abbia invitato i suoi seguaci a «penetrare nelle arterie del sistema senza che nessuno noti la vostra esistenza finché non raggiungete i centri del potere». Ma la verità è che il suo potere non ha avuto alcuna influenza sui risultati elettorali in Turchia. Quello che si è visto è, invece, il pugno di ferro di Erdogan abbattersi sul movimento. Senza pietà.