la Repubblica, 6 marzo 2016
A proposito del laser (che a più di cinquant’anni può contare su un futuro ancor più luminoso)
Aveva un cuore di rubino ed era tanto piccolo da stare in una mano. Era il primo laser della storia, e si stava preparando a cambiare le nostre vite illuminando di rosso le pareti di un laboratorio di Malibu. Era il 16 maggio del 1960 e, come ebbe a dire il suo inventore, il fisico Ted Maiman, in quel momento il laser era già «una soluzione in cerca di problemi». Cinquantasei anni più tardi, di problemi ne ha effettivamente risolti molti, anche quelli che allora non sapevamo di avere: produce i circuiti elettronici di telefonini e computer, fa funzionare stampanti e lettori di cd e dvd, lo incontriamo dal medico, alla cassa del supermercato, ai tornelli di ingresso di musei e metropolitane, e a qualcuno può persino essere capitato di usarlo per misurare la distanza tra la Terra e la Luna. Ma una seconda rivoluzione è vicina, e il futuro del laser oggi appare più luminoso che mai.
Il laser è un dispositivo che produce una luce intensa, monocromatica, e concentrata in un fascio rettilineo. Con questa luce si possono fare tagli di grande precisione, per esempio utili in chirurgia, o trasportare informazioni a distanza lungo le fibre ottiche. Il nome laser è un acronimo che, tradotto, significa “amplificazione di luce mediante emissione stimolata di radiazioni” il che, a grandissime linee, ne spiega il funzionamento: un’amplificazione di fotoni (cioè radiazione luminosa) prodotti stimolando gli elettroni del cuore del dispositivo, quello che Maiman aveva costruito di rubino. L’idea primigenia era stata di Albert Einstein, che nel 1917 aveva descritto l’”emissione stimolata di radiazioni”. Ma per la prima parte dell’acronimo, cioè per l’”amplificazione della luce” così prodotta, ci volle del tempo: un po’ perché serviva una certa tecnologia, un po’ perché la comunità scientifica aveva già abbastanza da fare con il resto delle idee di Einstein e con la fisica del Novecento. Una volta accesa quella luce color rubino a Malibu, però, bastarono due anni perché un laser entrasse in una sala operatoria, e si trovasse a lampeggiare tra le mani di un oculista.
Oggi la maggior parte dei laser discendono da quello, e sono fatti come il nome descrive. «Ma da allora si sono evoluti tantissimo», spiega Paolo De Natale, direttore dell’Istituto nazionale di ottica (Ino) del Cnr, che ha la sede sulle colline di Arcetri (Firenze) davanti alla villa di Galileo Galilei. «La luce laser è nata nella regione del visibile, per questo se diciamo laser pensiamo a una luce colorata. Ma poi siamo riusciti a coprire regioni dello spettro elettromagnetico via via sempre più ampie. E allargare la copertura dello spettro significa allargare le possibilità di applicazione del laser». Per esempio, «nell’infrarosso si possono distinguere bene le molecole: molecole semplici, come la CO2, e molecole complesse, come quelle biologiche». Quindi i laser diventano cruciali per produrre sensori di inquinamento o nuovi strumenti di studio in biologia, e in futuro anche di diagnosi. Oltre, al confine con il regno delle microonde, nella regione delle frequenze terahertz, si possono produrre fasci di luce non visibile a cui molti materiali sono trasparenti: «e pensate che vantaggio per i sistemi di sicurezza, come quelli in aeroporto».
Da quelle parti dello spettro c’è un nuovo tipo di laser: il laser a cascata quantica.
«All’Ino ci stiamo lavorando sin da quando fu inventato, circa venti anni fa. Da allora studiamo la fisica di queste sorgenti, che intanto sono diventate sempre più compatte e versatili e oggi si possono usare a temperatura ambiente», prosegue De Natale. Strumenti basati su questo laser si usano già, per distinguere l’anidride carbonica prodotta bruciando combustibili fossili da quella da fonti rinnovabili e per datare reperti archeologici.
Dalla parte opposta dello spettro c’è un’altra grande sfida per il futuro: «produrre laser che diano radiazioni a lunghezze d’onda così corte da permettere di costruire circuiti elettronici sempre più piccoli. Tanto da fare megacomputer grandi come telefonini», spiega Massimo Ferrario, dei Laboratori Nazionali di Frascati dell’Infn. Solo che qui la tecnologia convenzionale non basta più. «Per andare oltre l’ultravioletto la prossima rivoluzione saranno i cosiddetti laser a elettroni liberi – prosegue Ferrario – cioè laser in cui a essere stimolata è una nuvola di elettroni non legati a nuclei atomici: a seconda di quanto li accelero, posso generare radiazioni di lunghezza d’onda diversa, anche molto corta, come raggi X».
Il primo laser di questo tipo fu costruito nel 1977 e oggi al mondo ne esistono pochi, anche perché si tratta di macchine enormi. «La grande sfida consiste proprio nel ridurne le dimensioni e i costi così da renderne possibile l’uso negli ospedali, nelle università e nelle industrie». Uno oggi si trova nel laboratorio Elettra – Sincrotrone Trieste e si chiama Fermi: «è un oggetto di trecento metri con caratteristiche uniche», spiega Claudio Masciovecchio, che ne è il responsabile scientifico. «Con questo laser possiamo studiare la materia fino al singolo atomo, e capire nel dettaglio come funzionino certe proteine. Per esempio quelle dei processi della fotosintesi, che è un sistema di produzione dell’energia di grandissima efficienza», e che sarebbe quindi bello essere in grado di copiare.
Intanto il laser ha permesso di costruire orologi atomici superprecisi, di quelli che perdono meno di un secondo durante tutta la vita di un Universo, su cui si basano oggi i nostri sistemi di posizionamento satellitare. E sarà «il connubio tra informatica e laser a fare davvero la rivoluzione», prevede De Natale. Comunque, che cosa ci riservi in futuro il laser non è facile provare a figurarselo: «negli anni sessanta chi studiava i laser veniva preso per matto: non immaginavamo certo come li avremmo usati oggi», chiosa ridendo Ferrario. Come dire che, per saperlo, possiamo solo continuare a seguire la strada indicata da quella luce rosso rubino che cinquantasei anni fa si è accesa a Malibu.