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 2016  marzo 06 Domenica calendario

I mille numeri di Domus, la Rolls Royce dell’architettura

Maurizio Bono per la Repubblica
Per trovarle ci vuole un po’ di senso dell’orientamento e fortuna col meteo (evitare le giornate di foschia), ma ci sono molte finestre milanesi oltre il decimo piano da cui si possono vedere con un colpo d’occhio due simboli dell’architettura contemporanea: la “brutalista” (come si diceva allora) Torre Velasca di Ernesto Nathan Rogers (1957) e il grattacielo Pirelli (1960) di Giò Ponti. Ecco, la durata e il peso di una rivista come Domus, che a giorni compie mille numeri in ottantotto anni, si può stimare anche da lì: Giò Ponti la creò nel 1928 e la diresse per tredici anni tra le due guerre e di nuovo per altri ventotto, dal 1948 al 1976. Ernesto Nathan Rogers fece molti meno numeri e qualcosa di più: la rimise sui binari dopo l’unico suo deragliamento dall’appuntamento periodico, quando aveva cessato brevemente le pubblicazioni tra il 1945 e il 1946.
Del resto, ad avere una vista d’aquila, dall’alto si potrebbero scorgere, dei diciassette direttori della rivista (a volte tre insieme come in piena guerra lo scrittore Massimo Bontempelli e gli architetti Melchiorre Bega e Mario Pagano, che assunse l’incarico da progettista amato dal regime nel 1941 e lo perse l’anno dopo dimettendosi dal partito fascista per morire da partigiano nel 1945 a Mathausen) altri edifici importanti, come il Portello del decimo (Mario Bellini, 1979-1984) e il Bosco verticale del quattordicesimo (Stefano Boeri, 2004-2007).
Vero è che certi architetti hanno il privilegio di realizzare creazioni che restano e si vedono da lontano, ma il punto non è lì. Perché l’ottavo direttore di Domus (per due giri: 1979-1984 e 2010-2011) Alessandro Mendini, per esempio, è un grandissimo designer, dai cavatappi per Alessi alla Poltrona Proust; altri sono storici dell’urbanistica come Vittorio Magnago Lampugnani (l’undicesimo, 1992-1996), o critici d’arte e d’architettura. Il punto è che Domus ha sempre avuto la specialità di usare grandi talenti, italiani e internazionali, per impaginare il racconto del modo di abitare le case e le città lungo nove decenni, da quando telefono e luce elettrica erano novità non ancora alla portata di tutti fino ai grattacieli e alla domotica.
Un’autorevole rivista élitaria e specialistica di settore, per riuscire a tanto ha tre vie. La prima è essere militante, che fa quadrato sulle proprie idee. La seconda, sotto sotto perfino più ambiziosa, è rappresentare le idee nuove e buone di tutti. La terza è fare come Domus: fare l’una e l’altra cosa insieme, a costo di litigare quasi di continuo e vivere di contrasti tra un’annata e l’altra e tra una direzione e l’altra. Come è stato perfino istituzionalizzato da quando, lo racconta nel numero mille Giovanna Mazzocchi, è stato deciso di cambiare direttori spesso e con la loro direzione lo sguardo sulle cose. Deciso da chi? Dall’editore, che è l’altra caratteristica unica e permanente di Domus. Dal primo, Gianni Mazzocchi, che Enzo Biagi ricordava dicendo «nessuno ha inventato tanti giornali quanto lui» (oltre a Domus, Fili, Quattroruote, Italia Libera, L’Europeo di Arrigo Benedetti, Il Mondo di Mario Pannunzio) all’ultimo, che è la figlia subentrata a Gianni Mazzocchi alla sua morte nel 1985. Facendo da timoniere quando nel ruolo del capitano ci sono personaggi troppo indaffarati con la propria creatività per fare un giornale, ma fortunatamente anche per voler dedicare eccessiva cura a selezionare tra buone idee della propria scuola e buone idee della scuola degli altri.
Così per mille numeri in Domus è entrato e di lì è rimbalzato anche negli ottantanove paesi in cui la rivista è diffusa, quasi tutto quello che di nuovo si muoveva nel mondo dell’architettura. Farne l’elenco è inutile e noioso: è online l’archivio digitale, dal primo numero con la copertina blu del 15 gennaio 1928 (abbonamento al costo medio di un solo volume patinato di architettura). Ci sono tutti: dalla “a” di Alvar Aalto alla “z”di Zaha Hadid. E più ancora dei nomi e dei progetti, in quella grande miniera di superficie, scavabile per tesi e ricerche o anche solo per ripasso, c’è l’evoluzione dell’architettura e del modo di vivere fino a oggi. Ci sono il razionalismo italiano e il modernismo internazionale prima della guerra, c’è il primo dopoguerra d’Italia e d’Europa con lo spostamento dell’attenzione dall’Architettura e arredamento dell’abitazione in città e in campagna, come suonava il primo sottotitolo della testata, alle dimensioni dell’urbanistica sociale. C’è il ventennale confronto con il postmodernismo e, nel 1977, l’irruzione sulla scena dei musei e della loro concezione della machine à penser Beaubourg progettata da Rogers e Piano a Parigi. C’è, più in generale, il riflesso della lunga marcia del gusto che nell’Italia del miglior design industriale del mondo si affranca dal provincialismo ma fatica di più a superare pregiudizi anche ideologici (e di rado infondati) verso grandi progetti, grandi firme, grandi opere. C’è l’incontro tra arti visive, architettura e innovazione digitale. C’è infine la stagione degli architetti superstar e – siamo all’oggi – quella del suo ripensamento in corso: il premio Pritzker quest’anno è andato all’architetto cileno Alejandro Aravena che inventa case modulari per le favelas, l’inglese Turner Prize agli artisti Assemble che come sensibili bricoleur restaurano quartieri dismessi, in rete con gli abitanti volonterosi. Perfino dalla Cina, che fino al rallentamento dell’economia sembrava un po’ in ritardo nell’emanciparsi dall’incanto delle forme spettacolari importate dai più visionari studi d’Occidente, arrivano invocazioni a un design più attento alla realtà sociale. Il futuro non è mai come lo si aspetta, anche in architettura. Per questo ci vuole sempre chi lo racconti, dall’interno, man mano che succede.

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Stefano Boeri per la Repubblica
Eppure quel saluto di Deyan Sudjic nel settembre 2003, al momento di passarmi le consegne per la direzione, non mi era bastato per capire il mistero di “Domus”. Quello di una rivista specializzata e internazionale che era passata indenne per le mani di svariati direttori e redattori e autori senza perdere nulla della sua potenza distintiva. La verità è che “Domus” non è mai solo stata una bellissima rivista patinata, con celebri copertine, grandi immagini e un formato coraggiosamente rimasto ingombrante. “Domus” è stata, fin dall’inizio, un caleidoscopio. Sfogliarla, entrarci ha significato per intere generazioni di architetti, artisti, intellettuali, scoprire ogni volta la natura eteronoma del fare architettura. Le pitture decorative che punteggiavano la “Domus” di Ponti, le fotografie di viaggio di Sottsass nella “Domus” di Mendini, le mappe geopolitiche in quella di Grima, sono solo alcuni dei tantissimi materiali eclettici che dal 1928 a oggi, una schiera di redattori coscienziosi e competenti ha riprodotto e impaginato con una inusuale e sempre eccellente resa grafica. Nel suo palcoscenico abbiamo visto scorrere le correnti dell’arte e le preoccupazioni della sociologia urbana, le “arti applicate” e la moda, le scenografie teatrali e la prosa, il cinema e la violenza della cultura pop. Un mondo di suggestioni, forme, ispirazioni di cui l’architettura si è sempre nutrita con famelica e a volte onnivora vena su “Domus” diventava e diventa protagonista: sempre in primo piano e sempre ricondotto al suo ruolo di alimento fondamentale per il fare architettura, per fare design. Nella grande sfida per far vivere al lettore gli spazi e le atmosfere di architetture e oggetti che nella sua vita forse mai percorrerà con i suoi passi e vivrà con i sensi, “Domus” ha scelto la strada più ripida e appassionante. Quella di raccontare come tutte le architetture e le opere di design che il mondo ospita non sono mai solo frutto di una specializzazione tecnica, ma anche sempre di quel movimento inclusivo, di apertura selettiva, che distingue gli architetti sensibili dai riproduttori in serie di stilemi ereditati. Ogni architettura non è infatti solo un minerale duro come un sasso infisso nel terreno in qualche parte nel mondo; è anche un potente scrigno di memorie e di idee, di suggestioni e di emozioni che nascono nella sfera intima del suo autore e rivivono in quella interiore del lettore. Ed è proprio il ponte di sensazioni che una rivista costruisce tra autore e lettore, a dare valore di architettura a manufatti che altrimenti sarebbero solo un insieme di pietre e vetro e acciaio e cemento. Il mistero di “Domus” è forse quello di non rappresentare fedelmente l’architettura, ma piuttosto ogni volta di interpretarla.
Con il rigore, la qualità, la ricchezza di un caleidoscopio di 24,5 x 32,5 centimetri di pagine di carta, patinata lucida, 300 grammi.