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 2016  marzo 06 Domenica calendario

Columbine, la strage raccontata da Sue Klebold. La mamma di Dylan, uno dei due killer, spiega cosa significa scoprire che il proprio figlio è un assassino

20 aprile 1999, ore 12.05
Era scoppiata una guerra? Il paese era sotto attacco? «Cos’è successo?», strillai nel ricevitore. Mi rispose soltanto l’indecifrabile rumore del televisore in sottofondo. Finalmente Tom tornò in linea. Era come impazzito. Le parole che gli uscivano a raffica dalla bocca erano sconnesse, prive di senso: «Sparatoria... armi... scuola». A fatica, riuscii a ricostruire il suo resoconto. Pochi minuti prima, nel suo studio di casa, aveva ricevuto una telefonata di Nate, il migliore amico di Dylan. «Dylan è lì?», gli aveva chiesto. Già di suo la domanda era allarmante, nel bel mezzo di un giorno di scuola: degli uomini armati avevano fatto irruzione nel liceo Columbine, dove nostro figlio frequentava l’ultimo anno, e stavano sparando agli studenti. E non era finita: secondo Nate, gli assalitori indossavano un impermeabile nero identico a quello che avevamo regalato a Dylan. «Non voglio spaventarla», aveva detto Nate a Tom «ma conosco tutti i compagni che hanno un cappotto simile. Gli unici che non riesco a rintracciare sono Dylan ed Eric. Stamattina non sono nemmeno venuti al bowling». La voce di Tom era carica di angoscia mentre mi raccontava che, subito dopo aver riagganciato con il ragazzo, aveva rovistato ovunque alla ricerca dell’impermeabile di Dylan, nell’irrazionale convinzione che se fosse riuscito a trovarlo nostro figlio sarebbe stato al sicuro. «Sto arrivando», dissi, impietrita dal panico. In macchina, mille interrogativi mi vorticavano in testa. Non pensai nemmeno ad accendere la radio. Riuscivo a stento a tenere l’auto in carreggiata. Dylan è in pericolo. Continuavo a rigirare nella mente quei pochi brandelli di informazioni. L’impermeabile poteva essere ovunque: nell’armadietto di Dylan, nella sua macchina. O magari lo aveva perso. Comunque era solo un cappotto, che importanza poteva avere? Il tragitto pareva non finire mai, come se stessi andando al rallentatore, mentre il mio cervello viaggiava alla velocità della luce e il cuore mi martellava i timpani. Mi ostinavo a scomporre e ricombinare le tessere del puzzle nel tentativo di creare un’immagine rassicurante. Guidando, parlavo da sola, poi scoppiai in singhiozzi convulsi. Non avevo informazioni sufficienti per saltare alle conclusioni, ripetei a me stessa. Il liceo Columbine era enorme, con oltre duemila studenti. Solo perché Nate non era riuscito a rintracciare Dylan non significava che mio figlio fosse ferito o morto. Sforzandomi di tenere a bada il panico, cercai di convincermi che ci stavamo preoccupando per niente. Anche ammesso ci fosse stata una sparatoria, non sapevamo neppure se ci fossero vittime. Eppure la mia mente si ostinava a rimbalzare da uno scenario catastrofico all’altro. Tom aveva detto che c’erano degli uomini armati nella scuola. Uomini armati! Dylan poteva essere ferito. Per questo non si riusciva a trovarlo. Era morto o sanguinante da qualche parte, in trappola, impossibilitato a chiedere aiuto. Oppure era in ostaggio.
Ma c’era un’altra idea fissa che non riuscivo a zittire. Avevo provato un brivido di terrore viscerale quando Tom aveva fatto il nome di Eric Harris. L’unica volta che Dylan si era cacciato in un guaio serio era stato con lui. Scossi di nuovo la testa. Dylan era stato un bambino allegro e affettuoso, crescendo era diventato un adolescente tranquillo e con la testa sulle spalle. Aveva imparato la lezione, mi dissi. Non si sarebbe lasciato trascinare in altre imprudenze. Mi chiesi anche se la tragedia in corso nella scuola non fosse cominciata come uno scherzo, una bravata degli studenti dell’ultimo anno sfuggita a ogni controllo. Di una cosa ero certa: era impossibile che Dylan fosse armato. Io e Tom eravamo così contrari alle armi che stavamo prendendo in considerazione l’ipotesi di andarcene dal Colorado, dove le nuove leggi avevano reso più facile ottenerle. Anche ammesso che un suo compagno avesse potuto concepire un’idea tanto sciagurata, non c’era la minima possibilità che Dylan si fosse lasciato coinvolgere se c’era di mezzo una pistola vera.
Continuai così per tutto il viaggio. Avevo davanti agli occhi l’immagine di mio figlio ferito, spaventato e coperto di sangue, alla quale poi se ne sovrapponevano altre più felici: Dylan bambino che spegneva le candeline; o che strillava sfrecciando sullo scivolo per tuffarsi nella piscinetta in cortile. Dicono che prima di morire si riveda ogni istante della propria vita, ma in quei quaranta chilometri fu l’esistenza di mio figlio a scorrermi davanti agli occhi, come la pellicola di un film.
A casa, Tom mi riferì quanto sapeva in una serie di frasi sconnesse: una sparatoria nella scuola, Dylan ed Eric ancora irrintracciabili. Non c’erano notizie certe. Ci aggiravamo per casa come giocattoli a molla impazziti,Tom ossessionato dalla ricerca dell’impermeabile, io sconcertata dal fatto che Dylan non fosse andato al bowling. Ripensandoci quella stranezza mi angosciò ancora di più. Quella mattina la mia sveglia era suonata alle prime luci dell’alba. Sapendo quanto Dylan odiasse alzarsi presto, io e Tom avevamo cercato di dissuaderlo dall’iscriversi agli allenamenti di bowling, che si tenevano alle sei e un quarto. Eppure quella mattina lo avevo sentito scendere le scale e poi passare davanti alla porta chiusa della nostra stanza al pianterreno, stupita che fosse già in piedi. Mi ero sporta dalla stanza e lo avevo chiamato. «Dyl?». Dall’oscurità, la voce secca e decisa di mio figlio aveva risposto con un «Ciao». Dylan se n’era andato con un’unica parola, ma l’aveva pronunciata con un’asprezza che non gli avevo mai sentito, quasi un ringhio, come se l’avessi interrotto mentre litigava con qualcuno. La tensione che avevo avvertito in quel «ciao» mi gelava il sangue. Se non era andato al bowling, dove diavolo era stato?
Il mondo, però, non andò davvero in frantumi finché non squillò il telefono e Tom si fiondò in cucina per rispondere. Era un avvocato. Fino ad allora, la mia paura dominante era stata che Dylan fosse in pericolo, che fosse ferito o avesse commesso un’imprudenza, uno stupido scherzo finito male. Tom invece doveva aver preso in considerazione anche un’altra possibilità: l’ipotesi che Dylan avesse commesso un gesto abbastanza grave da richiedere l’intervento di un avvocato. L’episodio con Eric risaliva a un anno prima: Dylan, un ragazzo che non ci aveva mai dato preoccupazioni, aveva forzato un furgone e rubato alcune apparecchiature elettroniche. La polizia gli aveva concesso la condizionale: il minimo passo falso gli sarebbe costato un’imputazione penale e una condanna al carcere. Così, al primo sospetto che Dylan potesse aver combinato qualcosa, Tom si era subito messo in contatto con un legale. L’avvocato ci aveva chiamati per comunicarci che l’inconcepibile era accaduto davvero: al liceo Columbine c’era stata un’irruzione di uomini armati che avevano aperto il fuoco. Dylan era uno dei sospettati. La polizia stava venendo a casa nostra. Avevo temuto che fosse in pericolo; ora scoprivo che aveva fatto del male ai suoi compagni. Il mio cervello si rifiutava di crederci.
Arrivarono i primi poliziotti e ci scortarono fuori sul vialetto. La giornata era bellissima, il tipico clima che annuncia finalmente l’arrivo della primavera. Quel tempo magnifico mi colpì come uno schiaffo in pieno volto. «Perché la polizia ci tiene qui fuori?», domandai. «Cosa vogliono da noi?». Un agente venne a spiegarci che stavano perquisendo la casa in cerca di esplosivi. Era la prima volta che sentivamo parlare di esplosivi. Non aggiunsero altre spiegazioni, si limitarono a proibirci di rientrare e, tantomeno, di allontanarci. Noi non potevamo saperlo, ma a quel punto Dylan ed Eric erano già morti. La prima squadra d’intervento entrata aveva rinvenuto i loro corpi, circondati da quelli delle loro vittime.
Non capivo se ci stessero proteggendo o se ci considerassero pericolosi. Entrambe le ipotesi erano orribili. Infine il detective incaricato dell’indagine ci comunicò che ci avrebbe interrogati uno alla volta. Il mio colloquio avvenne sul sedile anteriore della sua auto. In tono solenne e minaccioso, andò dritto al dunque: avevamo armi, in casa?
Quando scesi dall’auto, mi sentivo così fragile che temevo di esplodere in mille pezzi. Essendo rimasti tanto a lungo in strada, tagliati fuori dalle notizie dell’ultim’ora, con ogni probabilità ne sapevamo meno di chiunque altro, a Littleton come nel resto del mondo, a pensarci bene. Allora i cellulari non erano onnipresenti come adesso. Restammo fuori al sole, appollaiati sui gradini di cemento. Io e Tom ci scambiavamo i nostri interrogativi con sussurri smorzati. Doveva essere stato costretto da un criminale, o più di uno. Prendemmo persino in considerazione l’ipotesi di un ricatto – la minaccia di fare del male a noi – al quale lui avesse ceduto per proteggerci. O forse era entrato nella scuola credendo che si trattasse di uno scherzo, una specie di rappresentazione teatrale, per poi scoprire all’ultimo minuto che le munizioni erano vere. Se il ragazzo gentile, buffo, impacciato che amavamo tanto aveva fatto una cosa del genere era perché qualcun altro lo aveva ingannato, minacciato, magari addirittura drogato. Restammo là fuori, sul vialetto, sospesi in un limbo, a trascorrere ore scandite soltanto dalla nostra totale confusione e dall’alternanza vertiginosa di speranza e terrore.
Poi la porta a vetri si spalancò facendo filtrare il suono del televisore che Tom aveva lasciato acceso nella nostra camera da letto. Rimbombando nel silenzio della casa, il notiziario locale riferì gli aggiornamenti dal liceo Columbine. In quell’istante capii che la grazia più grande che potevo chiedere per mio figlio non era la sua salvezza ma la sua morte.


Testo tratto da:  A Mother’s Reckoning Copyright © 2016 by Vention Resources, Inc. PBC. This translation published by arrangement with Crown Publishers,
an imprint of the Crown Publishing Group, a division of Random House LLC.

© 2016 Sperling & Kupfer Editori S. p. A.