la Repubblica, 6 marzo 2016
Perché bisogna leggere Proust?
Caro dottor Augias, a cosa serve oggi, in questo tempo di edizioni minimali, di livres de poche, leggere la Recherche? Forse – diceva un po’ di tempo fa ironicamente sul Corriere della sera Alessandro Piperno (studioso di Proust) a un suo amico (che non era riuscito a leggerla per intero) – serve almeno «per rimorchiare le pollastre», perché portarsi dietro questa specie di cathédrale di parole consente un certo «incremento di appeal erotico». Non si può negare infatti che la lettura di questo super-romanzo risulti alla lunga noiosa, dice lo stesso Piperno, a causa di una sintassi complessa e di uno stile «privo di naturalezza», e che perciò al lettore venga richiesta una pazienza giobica. Sono d’accordo con lo scrittore quando sostiene che la Recherche sia «un’opera nichilista»: essa svelerebbe il fatto che dall’insensatezza della vita non vi sia nulla da imparare. Tuttavia, se c’è qualcosa che si possa apprendere, aggiungeremmo, è che il lettore di quest’opera, oltre a quella della noia e dello smarrimento, fa anche l’esperienza, stupefacente, leggera e liberatoria, dell’assenza del valore di verità.
Franco Di Giorgi – onfalo@libero.it
E le pare niente? Fosse anche solo questo: scoprire l’assenza del valore di verità. Ci sono voluti secoli per arrivare a vederlo. Se fosse poi vero l’assunto che lo sterminato romanzo di Proust Alla ricerca del tempo perduto serve solo al”rimorchio”, vuol dire che abbiamo perso un altro pezzetto di storia: non della letteratura – della civiltà. Lo scrittore rievoca, trasfigurandola, la vita sua e del mondo negli anni tra la Comune di Parigi e l’epoca subito successiva alla Grande Guerra. Il declino, definitivo, degli aristocratici, l’ascesa sociale dei borghesi di cui ricostruisce i tic sociali mentre ne svela e interpreta i sentimenti, rimossi o cancellati. I sette volumi uscirono tra il 1913 e il ’27, postumi gli ultimi. Proust noioso? Allo stesso modo in cui possono sembrarlo certe pagine di Joyce soprattutto se lette in traduzione, o certe sterminate sinfonie di Bruckner. Proust è stato un rivoluzionario, ha scardinato la struttura del romanzo, aprendo la strada alla commistione del romanzo puro con altri generi di cui ora tutti – grazie a lui – godiamo. Nel presentare una bella edizione del capolavoro nei Meridiani Mondadori, Giovanni Raboni ha scritto «Partito per raccontare l’esperienza della propria vita, si è trovato a poco a poco a investire altri domini e a trasformare la realtà in una filosofia dell’esistenza». Certo che la lettura è impegnativa, ma chi dice che le letture non debbano mai esserlo? Dostoevskij o Tolstoj non lo sono altrettanto? Vogliamo tagliar via ciò che affatica le nostre animucce vagule e blandule? Ci sono in Proust periodi lunghi un’intera pagina, il gioco delle subordinate affatica, non si può negare; affatica ma strappa anche gli applausi, diciamo così, per la maestria con la quale l’autore plasma la lingua piegandola al gioco ondivago della memoria che va e viene a capriccio – la sua e quella di ognuno di noi. Proust ha sottratto il romanzo all’insidia del consumo aprendogli le porte dell’avvenire, un po’ di fatica la merita; da parte chi s’interessa a certe cose, ovviamente.