Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2016  marzo 07 Lunedì calendario

Il debito pubblico continua a salire. Ecco perché

A fine marzo il presidente del Consiglio lo dava per avvenuto: «In Italia il debito va giù», dichiarava alla direzione nazionale del PD. Si riferiva al debito pubblico, l’immensa zavorra da quasi 2.200 miliardi di euro che non solo costa allo stato ogni anno più di 70 miliardi in interessi, ma che rende quasi impossibile mettere in atto manovre massicciamente espansive. Ma Renzi non si riferiva all’anno appena concluso. Come certifica l’ultimo rapporto «Finanza pubblica, fabbisogno e debito» della Banca d’Italia, nel 2015 il debito ha raggiunto il livello più alto della storia in rapporto al Pil: 132,8 per cento, cioè 2.169,9 miliardi: uno dei più alti al mondo. Come spesso è avvenuto negli ultimi anni, su questo fronte le amministrazioni locali sono state più “virtuose” dello stato centrale, riducendo la loro componente nel debito pubblico di 6,6 miliardi. L’amministrazione centrale, invece, si è indebitata per 40,5 miliardi in più. Circa il 40 per cento del debito pubblico è detenuto da stranieri, in calo di 10 punti percentuali dall’inizio della crisi. Il resto è detenuto da cittadini o istituzioni italiani. Un quarto del totale, quasi 500 miliardi, si trova in mano alle banche italiane.
IL GOVERNO
Renzi, quindi, poteva riferirsi soltanto al 2016. Pochi giorni dopo la sua dichiarazione, infatti, il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan spiegava, in maniera più precisa: «Quest’anno – nel 2016 – il debito pubblico calerà». Poche settimane fa è stato il turno di anonimi funzionari del ministero dell’Economia, che all’Ansa hanno rivelato che, nonostante il peggioramento dei conti pubblici, il debito italiano è probabilmente destinato a scendere nel 2016. Secondo le loro previsioni, formulate lo scorso ottobre, nel 2016 il Pil italiano sarebbe dovuto crescere dell’1,6 per cento. Il debito pubblico si calcola in percentuale sul Pil, quindi se il Pil sale, il debito cala. Nello scenario più ottimistico, il debito si sarebbe dovuto ridurre di quasi un punto e mezzo percentuale: dal 132,8 al 127,9 per cento. Sarebbe la prima riduzione in più di un decennio.
Nelle ultime settimane, però, è arrivata una doccia gelata. Il 2015 si è chiuso molto male per l’economia globale e il 2016 è iniziato anche peggio.
La Cina si trova in difficoltà e ha trascinato con sé nell’incertezza numerose economie in via di sviluppo che per il loro benessere dipendono dalla domanda cinese di materie prime. Il calo nel prezzo del petrolio ha danneggiato i paesi produttori, che hanno diminuito o addirittura ritirato i preziosi investimenti che fino ad oggi avevano riversato in occidente, Italia compresa.
L’Ocse, l’organizzazione internazionale che riunisce i paesi più industrializzati, ha pubblicato proprio pochi giorni fa le nuove stime di crescita mondiale. Tutto il mondo è stato rivisto a ribasso e l’Italia non ha fatto eccezione: la crescita prevista dall’Ocse è soltanto dell’1 per cento, lo 0,6 per cento in meno di quanto prevede il governo italiano. In questa situazione è ancora possibile arrivare a una riduzione del debito pubblico?
Dipenderà da molti fattori, come l’inflazione e la situazione economica mondiale. Quello che è certo è che nelle ultime settimane Renzi ha mostrato più prudenza sul tema. Dopo l’incontro con il presidente della Commissione Europea Jean Claude Juncker, dieci giorni fa, non ha più parlato di certezze, ma di dovere: «Dobbiamo ridurre il debito pubblico, ma non perché ce lo chiede l’Europa, dobbiamo farlo per i nostri figli».
Le dichiarazioni del presidente del Consiglio su questo tema, restano comunque relativamente rare. Il debito pubblico non è più un argomento di attualità economica come era fino a un paio di anni fa. La ragione principale è che il famoso «spread» – la differenza tra quanto rendono i titoli di Stato italiani e quelli tedeschi – non fa più paura. I massicci interventi della Bce e un clima più disteso sui mercati internazionali, hanno fatto sì che il rendimento dei titoli di stato crollasse a un livello record. Raramente nella storia del nostro Paese è costato così poco indebitarsi. Al picco della crisi, il costo medio di emissione del debito era al 4,09 per cento, oggi è sceso allo 0,70 per cento. Eppure Renzi ha ragione quando dice che dobbiamo ai nostri figli la riduzione del debito. Anzi, la dobbiamo probabilmente a noi stessi, visto che con una zavorra di queste dimensioni sulle spalle, è facile che ai primi segnali di turbolenza possano ritornare i tempi del 2011 con lo spread a 500. Questo ammontare immenso, inoltre, è stato un ostacolo a quasi tutte le iniziative che i vari governi hanno cercato di intraprendere negli ultimi anni.
Si è parlato molto, ad esempio, del fatto che in anni passati la Germania ha speso soldi pubblici per aiutare il suo sistema bancario, mentre in Italia non è stato fatto altrettanto. Ma si è spesso dimenticato di aggiungere che i governi di allora sostenevano che il sistema finanziario italiano non aveva bisogno di essere salvato («Le nostre banche non parlano inglese», diceva il ministro Giulio Tremonti, per sottolineare come il nostro sistema fosse immune dal contagio globale). Ma soprattutto, in pochi hanno ricordato che con un debito pubblico a più di 2.000 miliardi era semplicemente impensabile emettere, dal giorno alla notte, le decine di miliardi di nuovo debito necessari per un intervento significativo sul sistema bancario.
In questi ultimi mesi, molti esperti e professori, sono tornati a dire che in fondo non ci dobbiamo preoccupare molto di questa grande massa di debito. Le stesse opinioni si erano sentite anche nel 2011: l’Italia è un paese dove è molto diffusa la ricchezza privata, che bilancia il nostro elevato debito pubblico. Chi porta avanti questa tesi, in genere, cita indicatori aggregati, come l’indebitamento netto di un paese, che mettono insieme debito pubblico e ricchezza delle famiglie.
RICCHEZZA PRIVATA
Nella classifica ottenuta con questi criteri, l’Italia in effetti non figura in una posizione così bassa come quando si prende in considerazione il debito pubblico. Soprattutto in queste settimane, quando le prime nuvole cominciano ad accumularsi – ancora molto lontano sull’orizzonte, per fortuna – è importante sottolineare quali sono le implicazioni di questa teoria. Sostenere che la ricchezza privata può diventare la stampella su cui appoggiare il debito pubblico significa che in caso di emergenza lo stato infilerà le mani in quella ricchezza e la userà per scongiurare i timori di una bancarotta del Paese.
Detto in altre parole, chi esalta l’importanza della ricchezza privata nella stabilità del paese sta invocando indirettamente una gigantesca imposta patrimoniale. Ci sono due problemi da considerare, però. Il primo, che sarebbe un’operazione politicamente difficilissima da applicare: segnerebbe probabilmente la fine della carriera di qualunque politico la appoggiasse. Il secondo: sarebbe tecnicamente molto difficile da realizzare, visto che buona parte della ricchezza privata degli italiani si trova in forme non liquide, come gli immobili.