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 2016  marzo 07 Lunedì calendario

Andare a lezione in ospedale. Viaggio nella classe-reparto del Bambin Gesù di Roma. Perché il diritto allo studio va garantito

Tu lo sai dove sta Girgenti?” chiede a bruciapelo l’inquisitore che ha 7 anni, indossa il suo pigiamino colorato ed è seduto sul letto. In piedi di fronte a lui c’è Rafaela, insegnante che supera brillantemente l’esame: “Girgenti è in Sicilia, se vuoi me la racconti”. Quel giorno è bastato poco per riuscire a penetrare la fitta coltre di paura che stava avvolgendo il piccolo malato. La maestra Rafaela Cucciniello c’è riuscita con la geografia, ma non è sempre così.
Roma, ospedale Bambin Gesù, dove piccoli da tutta Italia arrivano con le loro malattie accompagnati dalle famiglie. In quei momenti l’ultima cosa a cui pensano mamme e papà è la scuola. Così il piccolo gruppo di 26 insegnanti, ogni giorno, ricostruisce le proprie coordinate mentali e fisiche, rimettendo in discussione gli orari di quelle lezioni fuori da ogni ritualità scolastica a cominciare dai luoghi: le classi, normalmente contraddistinte dalle sezioni, nella scuola in ospedale vengono sostituite con i reparti come nefrologia, oncologia e dialisi. Al registro di classe viene anteposto quello dello studente con i suoi cicli di terapia ai quali vengono adeguate le lezioni impartite nelle camere, in piedi accanto alle flebo, senza vincoli di orari scanditi dalle campanelle perché in quei reparti e nel day hospital oncopediatrico i campanelli richiamano l’intervento di infermieri e medici.
Alberto Antinori, professore di musica, è il coordinatore dei maestri della “Scuola in ospedale” al Bambin Gesù: il gruppo ogni mattina si ritrova nel container bianco adibito ad aula insegnanti tra faldoni, fogli e mensole dove ogni professore conserva appunti di quell’universo di studenti che muta ogni giorno; la responsabile è Rosa Isabella Vocaturo, dirigente dell’Istituto comprensivo “Virgilio” di Roma, piglio da generale e sensibilità da mamma. Il professore Antinori la definisce “la scuola della resilienza” che dall’inizio dell’anno ha seguito 1.210 alunni con una media di oltre 9 mila ore di lezione.
Il docente, portatile in mano, mostra con orgoglio l’App che ha creato e con la quale ogni giorno le caposala possono inviare l’elenco dei nuovi – purtroppo sempre più numerosi –piccoli ammalati che gli insegnanti, di ogni ordine e grado, andranno poi a conoscere.
La “Scuola in ospedale” è un servizio pubblico garantito a tutti gli alunni malati e temporaneamente costretti a sospendere la frequenza nella loro classe: il diritto allo studio è così assicurato (per chi vuole senza nessuna costrizione) grazie al lavoro svolto da questo universo di docenti “atipici” quantomeno nel metodo di insegnamento che fa riferimento alla Direzione generale per lo Studente del Miur da cui provengono i dati complessivi e nazionali del servizio. A livello regionale vengono istituite strutture denominate Scuola Polo (in tutta Italia ne esistono 18) a cui fanno riferimento le relative sezioni ospedaliere che garantiscono il servizio scuola a chiunque lo richieda dai 3 ai 19 anni. Durante l’anno scolastico 2014/2015 oltre 64 mila studenti hanno usufruito del servizio, seguiti in questo percorso da 546 docenti in tutta Italia. La professione dell’insegnante in ospedale si confronta con difficoltà e problematiche particolari: non esistono classi, non è possibile fare una progettazione a inizio anno, ognuno dei docenti deve quotidianamente inventare un modo diverso per riuscire a entrare in empatia con studenti sempre nuovi e che soprattutto stanno vivendo la malattia con la sua relativa zavorra di incognite, cure e lontananza dalla propria rassicurante normalità. “Io ho scelto di diventare insegnante di ospedale dopo che avevo vissuto la situazione di mamma con mio figlio in dialisi per due anni proprio qui al Bambin Gesù”, racconta Rafaela, la maestra dell’esame di Girgenti.
Accanto a lei c’è Andreina Pagano, professoressa di Scienze, che in reparto cammina con passo lesto trascinando il suo trolley traboccante di fogli e libri: “Ogni giorno devi metterti in gioco per riuscire a farti apprezzare dai ragazzi – esordisce –. I bambini non hanno nessuna voglia di pensare alla scuola quando arrivano in questo posto per sottoporsi a cure pesanti eppure se riesci ad entrare in contatto con loro tutto il percorso è quasi in discesa”.
Questi insegnanti non giocano con i loro studenti e anche loro danno voti e redigono pagelle, ma solo dopo aver superato le resistenze di studenti e famiglie che reagiscono più o meno allo stesso modo: “Ma anche qui venite a tormentarci? Lasciateci in pace”. La dirigente Vocaturo sottolinea come in questo ambiente si debba necessariamente applicare una “matrice cognitiva diversa rispetto alle scuole per così dire normali. Inoltre il docente oltre a garantire il diritto all’istruzione in un contesto delicato e complesso si trova anche a essere un ponte tra la famiglia e l’ospedale”.
Si diventa insegnanti in ospedale o attraverso richiesta diretta del docente o perché, nel caso di sostituzione di docenti assenti, il sistema prevede che si acceda alle graduatorie destinate alle scuole non specificatamente ospedaliere. In questo caso si corre però il rischio di affidare incarichi a personale non solo non formato, ma anche non adeguatamente motivato e mosso solo dal desiderio di assumere comunque un posto di lavoro.
Su come rimediare a questa problematica Vocaturo afferma: “Personalmente penso che possa essere opportuno assumere il docente per un periodo di prova, lasciando al Dirigente Scolastico la facoltà di intervenire in quelle situazioni che possono dimostrarsi critiche e per poter orientare lo stesso docente in altre scuole”.
Nella “Scuola in ospedale” a volte servono piccoli pretesti per riuscire a comunicare in una situazione di disagio fisico, emotivo e soprattutto di paura. Anche Girgenti lo era per il piccolo malato: per raccontare alla maestra Rafaela che lui voleva uscire presto da quel letto perché voleva tornare a suonare nella banda del paese.