Corriere Economia, 7 marzo 2016
Cina, la fabbrica mondiale dei debiti
Domanda non da poco: il debito della Cina è al 250% del Prodotto interno lordo, non è eccessivo? Risposta di Zhou Xiaochuan, governatore della Banca del Popolo cinese, l’istituto centrale: «E quale sarebbe il livello giusto? Certo, è relativamente alto e sta salendo, ne siamo consapevoli e ci prestiamo attenzione. Ma anche il tasso di risparmio cinese è molto alto, al 50% del Pil, mentre in altri Paesi importanti è al 10, in alcuni a una cifra sola».
E poi, ha spiegato il governatore Zhou parlando al G-20 finanziario di Shanghai, questo debito complessivo del governo, delle amministrazioni locali, delle imprese e delle famiglie, sembra così alto solo perché molto del finanziamento alle industrie passa attraverso prestiti bancari; se le aziende della Cina avessero potuto accedere al mercato azionario per trovare capitali, il livello generale del debito non sarebbe stato così cattivo. «In Paesi con una Borsa matura gli investitori puntano sulle azioni, da noi invece le obbligazioni sono ingenti. Dovremmo agire più rapidamente? C’è un detto: “Non si possono tirare su i germogli dalla terra per farli crescere prima”».
Campagna acquisti
Nel frattempo sale il debito: quello delle imprese aumenta a un passo doppio rispetto alla crescita del Pil cinese e oggi è al 160% del Pil, rispetto al 98% del 2008 (negli Usa è al 70%). La Cina spende circa un quinto del suo Pil per il solo servizio del debito.
Le parole di Zhou hanno comunque subito avuto un effetto galvanizzante sulla Borsa di Shanghai e una nuova euforia si è creata sull’attesa di un altro stimolo monetario (un «quantitative easing» con caratteristiche cinesi).
Il debito quindi resta ed è destinato a salire per contrastare il rallentamento dell’economia. E per questo la settimana scorsa Moody’s ha abbassato l’outlook della Cina da stabile a negativo. La valutazione del credito di lungo-termine resta Aa3, perché le riserve sono «consistenti» e danno tempo al governo di affrontare le riforme. Ma il colpo d’avvertimento resta forte: il voto dato a Pechino è lo stesso assegnato per esempio a Cile e Taiwan (e questo paragone con l’isola rappresenta anche un problema d’immagine, almeno sul fronte interno).
Tra i problemi segnalati da Moody’s, e da tutti gli analisti internazionali, c’è quello delle aziende statali, che hanno visto il loro indebitamento schizzare al 62% degli asset rispetto al 55% del 2007.
Eppure, queste stesse industrie pubbliche della «China Inc» si sono lanciate in una campagna internazionale di M&A che nei primi due mesi del 2016 è già vicina ai 90 miliardi di dollari di spesa. Il capofila della spinta è ChemChina, famosa in Italia per l’operazione Pirelli, che ha offerto 44 miliardi di dollari per l’agribusiness della svizzera Syngenta. E il colosso statale ChemChina, ha scritto il «Financial Times», è un caso di scuola anche per esposizione finanziaria: il suo debito è 9,5 volte l’Ebitda (utili prima di interessi, tasse, deprezzamento e ammortizzamento), e pone il gruppo nella categoria definita da Standard Poor’s delle «highly-leveraged», imprese con alto tasso d’indebitamento. Quello con Syingenta è un accordo tra un gruppo privato svizzero e lo Stato cinese, e questo pur sollevando dubbi sulla natura ibrida dell’operazione, dà una garanzia di sostenibilità da parte di Pechino. Infatti banche globalizzate come Hsbc sono state pronte a mettersi a disposizione per finanziare l’acquisizione con un prestito ponte da 20 miliardi di dollari (al quale potrebbero partecipare secondo il «Wall Street Journal» anche Credit Suisse, Rabobank e UniCredit) e China Citic Bank attiverà in Asia la raccolta di altri 15 miliardi. ChemChina agisce per conto del governo centrale di Pechino e quindi merita credito, dicono gli analisti.
Il fattore riserve
Spiega a Corriere Economia un analista esperto di questi grandi giochi: «Non c’è solo il debito, bisogna guardare alle riserve valutarie cinesi, che sono molto ingenti. Pechino si chiede che cosa farne: hanno prima comprato grandi quantità di buoni del Tesoro Usa, poi hanno cominciato a investire in tecnologia e industria internazionali. Le acquisizioni all’estero da parte delle società statali sono scelte di geoeconomia e geopolitica». Resta il debito al 250% che sembra una bomba a orologeria per il sistema cinese (e quello globalizzato).
In più c’è il forte calo delle riserve cinesi in valuta estera, ridotte di 762 miliardi di dollari negli ultimi 18 mesi, come ha rilevato Moody’s nel suo «outlook negativo». Le riserve che erano arrivate a 4 trilioni di dollari sono stimate a fine gennaio in 3,23 trilioni, perché la Banca centrale di Pechino sta spendendo moltissimo in difesa dello yuan, dopo una serie di mosse contraddittorie di svalutazione cominciate l’estate scorsa e sicuramente non ben spiegate ai mercati. Solo a gennaio sono usciti dal forziere 99,5 miliardi di dollari. Il governatore Zhou ha una risposta anche a questo: «Le riserve in valuta non sono un giacimento di petrolio, che è statico, sono come un bacino idrico dove l’acqua scorre, entra ed esce sempre».