la Repubblica, 7 marzo 2016
Pete Sampras, l’artista degli Slam raccontato da Gianni Clerici
Nel settembre 1987 ci trovavamo, con il mio amico Bud Collins, nell’enorme e scomoda sala stampa di Flushing Meadows, che ancora non gli era stata dedicata. Poiché da sempre ci consultiamo, «Non mancarlo» mi suggerisce «È il futuro campione Usa. Gioca gli junior, sul n.16». Mi avviai verso qul campetto lontano, e mi sedetti, insieme a una dozzina di sconosciuti, parenti o curiosi. I due non avevano un’aria anglosassone, uno era addirittura cinese, l’altro un brunetto, sudamericano o mediterraneo. Avranno avuti al massimo 17 anni. Dopo 5 minuti mi ero reso conto della regolarità del cinese, ottimo passatore. Quanto al bruno … c’era qualcosa… qualcosa che avevo intuito palleggiando con Rosewall sedicenne, giocando con Sedgman, ammirando la Hingis dodicenne. Tornai in tribuna stampa, mi buttai al computer per afferrare l’ultima edizione «Ho ammirato per la prima volta il futuro campione del mondo scrissi – si chiama Pete Sampras». Spedito che ebbi, mi sedetti al ristorante che chiamavamo Junk, Spazzatura. Ed ecco Collins. «L’hai visto?» «Visto. È straordinario». «Soprattutto il rovescio». «Mi sembra meglio il diritto». «Ma come il diritto! Quel passante bimane ricorda Wilander». Quel ‘bimane‘ ci lasciò confusi per un minuto, sinchè capimmo che non ci eravamo capiti. Io parlavo del moretto, Bud del giallo. Certo di aver ragione, telefonai al mio amico Tacchini, al quale già avevo suggerito di vestire Mac, e ne ricevetti un ringraziamento che doveva, per più di un anno trasformarsi in dubbiose e scettiche domande di mie precisazioni. Era parso infatti, all’inizio, che avesse avuto ragione Collins. Chang avrebbe vinto il Roland Garros 1989 che resterà associato al mito del servizio dal basso contro Lendl, incredulo, furioso, e battuto. Quanto al mio Pete, eccolo vincitore l’anno seguente, a Flushing. Erano giunti, i due successi, un pochino in anticipo sulla storia. Chang infatti non avrebbe mai più vinto uno Slam, mentre Peter, per me ormai Pietrino, avrebbe veleggiato tra il n. 5 e il n. 3, soffrendo per un triennio la valanga Courier, gli ultimi fuochi di Edberg e Lendl, Becker sul rapido e l’attaccante dal fondo Agassi sul veloce.
Mi par giusto ricordare, tra i cento immigrati europei che hanno fatto grande il Tennis Usa, che non ce n’era stato uno solo, come Sampras, proveniente dalla Grecia, addirittura portatore, insieme ai geni spartani, di una anemia mediterranea che avrebbe insidiato i suoi successi forse più degli avversari. E, così come era accaduto a Borg con Rosberg, si era rinnovato il fatidico incontro con un Pigmalione quale il Dottor Fisher, capace di sommergere Peter di pellicole e miti di Laver, e di trasformarlo da bimane in mono-mano. Di Laver, con il quale sarebbe stato, anni dopo, ammesso a uno mitico palleggio a Melbourne, al termine del quale avrei avuto l’onore di stringere le mani benedette, Pete non ebbe né la sovrumana pazienza né, forse, il rovescio, per accedere all’unico Slam dei suoi 14, fallito. Il Roland Garros, quello in cui, secondo Rod «bisogna portare con sé il pranzo, e magari la cena».
Era riuscito solo una volta, nel 1996, a raggiungere una semifinale, dopo una asfissiante tripletta di match di 5 set. E il russo Kafelnikov l’aveva raccolto col suo cucchiaio bimane. Quanto fu diverso, quasi fosse un gemello di se stesso, il Sampras da hard courts o da erba. Non solo negli anni ruggenti, quelli da due Slam (93, 94, 95 e 97) ma soprattuto negli ultimi del 2000, a maggior esempio. Due sole inezie, due errorucci di un Rafter, australiano bello, potente, volleatore, aiutarono Pietro sui prati, per la settima volta.
L’ultimo US Open (2002) parve ancor più incredibile, e mi spinse a comprendere che l’essere un winner è qualcosa di irrazionale, così come l’essere poeta, o grande musicista. Invecchiato, se posso definir tale un giovanotto di 31 anni, giunse al suo ultimo Flushing classicato n. 17, e definito negli spogliatoi da un tennista che non merita cenno «un morto che cammina». Ma contro il suo «miglior nemico», Andre Agassi, bastò la capacità di traformare singhiozzanti scambi di 4 tiri in winners, insieme a 33 aces, altro numero emblematico.
Nel ricordare gli inizi e la fine sportiva di qualcuno che, quanto a Slam, si avvicina al mitico Federer (battendo quindi non meno di 5 altri grandi professionisti, impediti a successi analoghi da leggi ingiuste quanto indiote), ho trascurato gli anni ruggenti. Non certo dimenticati i 6 anni d’oro nei quali nessuno, ad eccezione di un boemo d’Olanda, Krajicek, fu in grado di superarlo (6 a 4). Pete ci offrì dunque delizie e winners straordinari, dal ‘93 al ‘98, anni in cui ebbi a chiedermi più volte se non avesse avuto torto il Dottor Fisher a mutargli il rovescio, o fosse l’anemia mediterranea a renderlo, in qualche rarissimo caso, vulnerabile. Ma 2 Australian, 5 US, e infine e soprattuto 7 Wimbledon, a tutti i quali ebbi la fortuna di assistere, non si dimenticano facilmente. Insieme all’umana gentilezza che parve l’antitesi di un’aggressività esplosa solo sul campo.