Corriere della Sera, 7 marzo 2016
Intanto gli ultras tengono in mano le leve del calcio
Mentre la strategia antiviolenza non si sposta molto da frasi fatte e dogmi faciloni («basterebbe fare come in Inghilterra»), i corpi speciali del tifo ultrà firmano blitz sempre più audaci e spavaldi. L’ultimo a Foggia: 200 assaltatori in assetto da combattimento aspettano il pullman della squadra al ritorno da Andria – dove i vili hanno perso 3-0 – e applicano la rappresaglia a modo loro. Sul bus con mazze, spranghe e bastoni. Volano schiaffi e pugni. Alla fine la squadra scappa dalla città e va a dormire in una località segreta. Serata memorabile. In linea con il corposo bilancio dell’ultimo periodo. L’altra settimana gli ultrà Samp entrano in campo a Bogliasco e tengono un discorsetto convincente ai giocatori: gli stessi giocatori, alla fine, applaudono sottomessi. E l’altro giorno, a Milano, gli atalantini si presentano sotto la sede della Gazzetta per manifestare contro un articolo sgradito. Imprevedibili e organizzate, le teste di cuoio del tifo colpiscono duro. Tanta attività, alla fine, paga. Ormai le loro parole incidono molto più a fondo di tanti pistolotti del presidente e di tante lavagne del mister. I leader siedono virtualmente a capotavola nei governi dei club: anche se non detengono un’azione, pesano più degli azionisti. La strategia bellica è perfetta: colpire l’obiettivo, avvelenare il clima e diventare protagonisti assoluti della discussione. Tutta una nazione imbronciata e intimidita che si ritrova a dire «il calcio sta morendo, così non si può continuare». Loro nel frattempo a sorridere compiaciuti di questa macabra popolarità, a venerare i propri martiri in galera, a studiare nuove sfide, consapevoli di tenere in pugno le leve del gioco. In un certo modo, sono anch’essi concordi nel dire «così non si può continuare». Si deve.