La Stampa, 7 marzo 2016
L’allucinante racconto di come il regime iraniano aveva teso una trappola a Javad, l’ormai ex compagno della premio Nobel Shirin Ebadi
«Nell’agosto del 2009 sono stata tradita insieme da mio marito e dal mio Paese». Comincia così la memoria di Shirin Ebadi, che il New York Times ha pubblicato ieri, anticipando il suo nuovo libro Until We Are Free: My Fight for Human Rights in Iran. L’allucinante racconto di come il regime iraniano aveva teso una trappola a Javad, l’ormai ex compagno della premio Nobel e attivista dei diritti umani, spingendolo a tradire la moglie per poi ricattarlo, e costringerlo a registrare una dichiarazione in video con cui la denunciava.
Ebadi ricorda che quell’anno aveva lasciato il suo Paese, trasferendosi a Londra per quello che sarebbe diventato poi un esilio permanente. Era andata ad Atlanta per visitare la figlia Negar, ma si teneva in contatto col marito chiamandolo due o tre volte alla settimana, ad appuntamenti prestabiliti. Un lunedì lui non aveva risposto, e lei aveva chiesto alla sorella di andarlo a cercare a casa: non c’era. Qualche giorno dopo era ricomparso, ma aveva detto alla sorella che era stanco e non poteva parlare. Il giorno dopo, la Ebadi aveva ricevuto una telefonata da Javad: «Shirin, non so se mi potrai perdonare». La sua voce tremava, e lei aveva risposto: «Stai piangendo? Cosa è successo?».
Javad le aveva raccontato che si era sentito molto «solo e vuoto», e quindi aveva accettato l’invito di un’amica, la signora Jafari, per andarla a trovare nel suo appartamento. Quando era arrivato, aveva scoperto che c’era anche una vecchia conoscenza, Mehri, con cui anni prima aveva avuto una relazione. Jafari aveva detto che Javad meritava qualcuno che gli facesse compagnia, ora che sua moglie era partita, e poi aveva lasciato la stanza con una scusa. «Mehri aveva cominciato a spogliarsi, abbracciarmi, dicendo quanto le ero mancato... Mi toccava, e io ho ceduto. Ci stavamo abbracciando nella stanza da letto, quando all’improvviso la porta dell’altra camera si è aperta».
Era comparso un ufficiale dell’intelligence iraniana, che aveva arrestato Javad. L’accusa era adulterio, e tutta la scena era stata registrata e filmata. Il marito della Ebadi era stato portato nel carcere di Evin, picchiato, chiuso in cella di isolamento. Dopo tre giorni era stato portato davanti a un giudice, che in venti minuti lo aveva condannato alla pena di morte per lapidazione, da eseguire due giorni dopo.
A quel punto era ricomparso l’ufficiale dell’intelligence, con un superiore, che gli aveva spiegato il vero obiettivo della trappola: doveva registrare un video, in cui avrebbe denunciato la moglie. Una volta tradita Shirin, lo avrebbero salvato dall’esecuzione, portandolo davanti a un religioso che avrebbe dichiarato il suo matrimonio retroattivo con Mehri. Javad aveva ceduto, e poco dopo si era ritrovato davanti a una telecamera: «Shirin Ebadi – aveva dichiarato – non meritava il Nobel. È stata premiata affinché potesse aiutare a rovesciare la Repubblica islamica. È una sostenitrice dell’Occidente, in particolare dell’America. Il suo lavoro non è al servizio degli iraniani, ma degli interessi di imperialisti stranieri che cercano di indebolire l’Iran». Una settimana dopo un religioso aveva dichiarato Javad e Mehri «sigheh», cioè temporaneamente sposati all’epoca del loro incontro, e quindi non colpevoli di adulterio, usando un’antica pratica che secondo Ebadi era stata pensata nel passato per legalizzare la prostituzione. Javad aveva portato il certificato in tribunale ed era stato liberato, pagando una piccola multa. «Dopo che la sua dichiarazione era stata pubblicata, e dopo innumerevoli e agonizzanti telefonate, finalmente ci accordammo per il divorzio».
Una storia assurda, avvenuta qualche anno prima dell’accordo nucleare con gli Usa e le recenti elezioni vinte dai moderati, che dimostra quanta strada ci sia ancora da fare prima di immaginare un rapporto nuovo con Teheran.