Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2016  marzo 05 Sabato calendario

Il centrodestra è a un passo dal suicidio anche perché Berlusconi rifiuta con pervicacia le primarie

Negli Stati Uniti qualcuno si pone in questi giorni un singolare interrogativo (“Trump è la fine della politica?”) proprio mentre il partito repubblicano rischia di auto-distruggersi pur di tagliare la strada al candidato impossibile, all’uomo che comunque rischia di annientare, disarticolandolo, il vecchio partito di Lincoln. Eppure Trump ha vinto le primarie e ha portato a votare, con il suo messaggio aspro e populista, un ceto sociale frustrato che altrimenti sarebbe rimasto a casa.
A Roma è il contrario. Il centrodestra sembra a un passo dal suicidio anche perché Berlusconi rifiuta con pervicacia di ricorrere alle primarie. Meglio affondare con Bertolaso, che rappresenta la proiezione del vecchio leader e in un certo senso è la sua controfigura, piuttosto che sopravvivere accettando le condizioni della Lega o di Storace. Dal suo punto di vista Berlusconi non ha torto: accettare oggi il ricorso a primarie frettolose, convocate all’unico scopo di sconfessare Bertolaso, vorrebbe dire alzare bandiera bianca. D’altra parte, i “gazebo” dove fra due settimane i romani saranno invitati a “esprimere un parere” sul candidato berlusconiano assomigliano a un gioco d’astuzia: una parodia delle primarie rifiutate quando ci sarebbe stato il tempo di organizzarle, uno pseudo-referendum che nei fatti sarà solo un momento della campagna elettorale.
Il centrodestra avrebbe urgente bisogno di un processo di rifondazione dalle radici, magari proprio con il ricorso sistematico e ben organizzato alle primarie. Ma questo non accade perché nei passaggi cruciali si vede che é ancora Berlusconi il decisore. Gli altri mordono il freno, a cominciare da Salvini, ma non dispongono di un vero “piano B”. Risultato: la destra si spegne e si disgrega lentamente. In America la crisi nasce perché il populista Trump trionfa nelle primarie, che dovrebbero essere un elemento cruciale nella cultura politica del paese. Da noi, in un diverso scenario, l’inesorabile declino avviene perché le primarie sono negate. Anzi, sono inaccettabili nella logica del partito patrimoniale di Berlusconi. A maggior ragione se dalle simil-primarie consultive messe in piedi da Salvini emerge, come è accaduto, non il nome di un estremista, bensì quello del moderato Marchini. La contraddizione è ancora più esplosiva.
Negli Usa non sappiamo cosa accadrà se i repubblicani otterranno la testa di Trump prima della “convention”. Può darsi che il miliardario si presenti da solo con effetti devastanti. Da noi il populismo, di cui Berlusconi fu nei suoi anni d’oro un interprete efficace, si è trasferito altrove: fra i Cinque Stelle e la Lega. E quel che resta del mondo berlusconiano avvizzisce, perde i pezzi. Non esiste più la grande capacità di sintesi di cui il leader sapeva dar prova un tempo. Rimane il potere di imporre Bertolaso, ma a costo del collasso dei rapporti politici interni.
Quanto al centrosinistra, che invece alle primarie rende sempre un omaggio rituale quanto svogliato, è difficile prevedere un clima meno partecipe e più distratto alla vigilia delle consultazioni di Roma e Napoli. Nella capitale c’è persino un candidato che, in mancanza di idee nuove, si presenta ai dibattiti con un orso di peluche, nell’intento di ammiccare a un noto cartone animato. Può darsi che l’affluenza domani smentisca certe previsioni, ma non c’è dubbio che la selezione di una classe dirigente dovrebbe avvenire sulle ali di ben altro entusiasmo popolare. Il rischio dell’indifferenza è quello di alimentare tutti i giudizi e i pregiudizi circa la debolezza della politica e di chi dovrebbe rappresentarla.
Sotto questo aspetto Milano sta offrendo un’immagine di concretezza che a Roma non si coglie. Né a sinistra né a destra. Quindi è giunto forse il momento di porsi alcune domande sul tema primarie sì o no. Magari con l’intento di recuperarne lo spirito originario. Che in America si va perdendo.