Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2016  marzo 05 Sabato calendario

Le incognite del sequestro, elencate una ad una

La guerra in Libia non è ancora cominciata, ma la nebbia che accompagna ogni conflitto – the fog of war – e rende ipotetica ogni “verità” si è già alzata. I quasi otto mesi di prigionia di Gino Pollicardo, Filippo Calcagno, Salvatore Failla e Fausto Piano ne sono stati e ne sono la prova generale. Un assaggio di quello che ci attende [sulla liberazione dei due ostaggi leggi anche Il Fatto del giorno].
In queste ore, in quella nebbia annegano infatti le risposte ad alcune domande chiave del sequestro. Chi erano davvero i carcerieri? E quante maschere hanno indossato o gli sono state fatte indossare (miliziani dell’Is, predoni, islamisti in cerca di ruolo e visibilità politica)? Cosa ci dice la panoplia di versioni accreditate da fonti libiche che hanno accompagnato prima la morte di Failla e Piano («scudi umani dell’Is», anzi no, «vittime per errore») e quindi la liberazione di Pollicardo e Calcagno («si sono liberati da soli», anzi no, «sono stati liberati con un efferato blitz contro gli uomini dell’Is»)? Per come ne riferiscono a Repubblica cinque diverse fonti inquirenti, di intelligence e di governo, è possibile fissare alcuni punti.
LE PROVE IN VITA
In una prima fase del sequestro i tentativi della nostra intelligence di annodare un filo con la banda dei sequestratori si misurano con l’evanescenza dei diversi mediatori e con le indicazioni generiche che offrono «fonti confidenziali libiche» di polizia giudiziaria, soprattutto nell’ambiente degli scafisti. Una cosa, tuttavia, appare certa. Gli ostaggi sono vivi. E, fino a dicembre, le prove che vengono fornite – una serie di audio accompagnati da fotografie – convincono la nostra intelligence e Palazzo Chigi che gli interlocutori possono essere coltivati e che i sequestratori siano «espressione di una delle milizie tunisino- maliane» che trafficano nella zona di Sabrata.
“COSA VOGLIONO DAVVERO?”
Racconta una fonte qualificata della nostra intelligence: «Prima della fine dello scorso anno, la vicenda si complica. Perché le trattative si fanno improvvisamente confuse». Non c’è più infatti soltanto la richiesta di un riscatto, tipica dei predoni, ma anche quella «di accreditarsi politicamente». Con Roma, ma anche con il governo di Tripoli e quello di Tobruk. Roma finisce in un mercato dai diversi interlocutori. I sequestratori, Tripoli e Tobruk. Dove non è chiaro dove finisca il bluff e cominci la verità. Tripoli, per dire, rimprovera a Roma di aver fatto una scelta di campo con il generale Haftar a Tobruk e che questa non la porterà alla soluzione del sequestro. Il primo ministro Khalifa al-Ghweil non ne fa mistero. Racconta al Corriere della Sera prima che le trattative sono a un punto morto. Che Roma avrebbe addirittura pagato 6 dei 12 milioni del riscatto richiesto alle persone sbagliate («una follia», dicono fonti di Governo). Quindi, nelle scorse settimane, che la vicenda si avvia a soluzione.
LA VARIABILE IS
Non è tutto. L’avanzata dell’Is verso Sirte e il suo consolidamento nell’entroterra di Sabrata aggiungono una nuova variabile. Che tutti gli interlocutori di Roma cominciano a sfruttare. Dice una fonte della nostra Antiterrorismo: «Da un certo momento in poi, Tripoli, come anche l’autorità militare di Sabrata ha tutto l’interesse ad accreditare che gli ostaggi siano in mano dell’Is. E, quel che è peggio, anche la banda dei sequestratori capisce di avere un vantaggio a lasciar pensare di essere nell’orbita di Daesh e comincia a tirarla per le lunghe dando l’evidente sensazione di essere in attesa di capire quale cavallo cavalcare».
IL VIDEO DI METÀ GENNAIO
Roma e l’intelligence provano a non lasciarsi irretire. Né del resto c’è un interesse a drammatizzare il quadro accreditando che i 4 operai siano nelle mani di Daesh. Dice una fonte di Governo: «Che non fossero nelle mani del Califfato, almeno in senso stretto, ce lo dice in quel momento la logica. Che senso infatti avrebbe avuto non usare visivamente gli ostaggi come un’arma di spaventosa pressione psicologica? Perché non mostrarli inginocchiati con una tuta arancione?». La nostra intelligence, per altro, sa che gli ostaggi sono stati separati e chiedono quale prova necessaria a chiudere che gli venga dimostrato che è un solo gruppo quello che li gestisce. La prova arriva a metà gennaio. Ed è un video dove i quattro sono insieme. Il resto è cronaca di queste ultime ore. Tripoli e la milizia di Sabrata assumono ufficialmente il merito prima di aver prima intercettato il convoglio Is che trasportava Failla e Piano, diverso da quello di Pollicardo e Calcagno, quindi quello del blitz, negato dalla nostra intelligence e dallo stesso sindaco della città, per la liberazione. Osserva una fonte della nostra intelligence: «Se fosse vero che c’è stato un blitz perché la notizia della liberazione è stata data direttamente al telefono da uno degli ostaggi?». E ancora: «Si è mai visto l’Is lasciare dei prigionieri senza sorveglianza?». La fog of war avvolge Roma.