il Fatto Quotidiano, 16 febbraio 2016
Perché in Italia è impossibile separare la giustizia dalla politica? Il caso Katzav
Su Panorama un politico di cosiddetta sinistra come Luciano Violante e un giornalista de La Stampa come Mattia Feltri, intervistati in coppia dall’ex lottatore continuo e ora berlusconiano Andrea Marcenaro, discettano di Mani Pulite a colpi di “magistratura a capo di un moto rivoluzionario” (Feltri), “protagonismo della magistratura” (Violante), “aberrazioni e porcherie civili perpetrate troppo a lungo e nemmeno esaurite dopo un quarto di secolo” (Marcenaro, riferito non ai ladri, ma alle guardie), “confusione fra poteri” dominata dalla “magistratura sostenuta da giornali e tv” (Violante), “magistratura eroicizzata che calpesta le regole” (Feltri), “eccesso di giustizialismo” (Violante), “protagonismo e voglia di leadership” dei giudici (Feltri) e via sproloquiando. Questo frullato di luoghi comuni, tanto più apodittici quanto meno fondati sui fatti, rende indistinguibili e interscambiabili i loro ripetitori: vista la perfetta identità di vedute, ciascuno slogan può essere attribuito indifferentemente a ciascuno dei tre. È il Pensiero Unico che ormai accomuna destra, centro e sinistra, con i rispettivi house organ al seguito, e precede e sostanzia il Partito Unico della Nazione. Anzi, della Dazione. Renzi non inventa nulla: si limita a ripetere a pappagallo i gargarismi di chi l’ha preceduto sul primato della politica, la presunzione d’innocenza, la collaborazione fra magistratura, politica ed economia ecc.
Vent’anni fa, a confondere le guardie e i ladri e ad attribuire il crollo della Prima Repubblica ai pm anziché ai tangentari, erano solo Craxi e pochi altri corrotti e corruttori eccellenti, seguiti a ruota da B. e dalla sua fairy band. Oggi quelle panzane sono patrimonio comune di tutta la classe dirigente. Compreso quel che resta del centrosinistra. Compresi i giornaloni e persino gran parte della magistratura, in piena crisi di identità ma sempre più tremebonda di disturbare i manovratori. Per fortuna, a ridestarci dal sonno della ragione, arrivano ogni tanto le notizie dal mondo normale: ieri, a 70 anni, è entrato in carcere per scontare una condanna definitiva di 18 mesi l’ex premier israeliano Ehud Olmert. Risiederà nel carcere di Torani, in una cella attigua a quella dell’ex presidente della Repubblica Moshe Katzav, che sconta 6 anni per violenza sessuale col numero di matricola carceraria 1418989: non ha diritto di indossare abiti civili, non può vedere la tv, né leggere giornali, solo eventualmente pregare (l’hanno messo nel blocco dei detenuti religiosi).
I casi Katzav e Olmert sono emblematici del rapporto giustizia-politica nelle democrazie che si rispettano (a prescindere dalle scelte dei governi). Katzav si dimise da capo dello Stato nel 2007 perché accusato di molestie e violenze sessuali su alcune segretarie. Fu condannato a 6 anni, e trascinato in carcere per scontarli tutti fino all’ultimo giorno. Nel 2008 tocca a Olmert: dirigente del Likud (centrodestra) e poi di Kadima (centro), già sindaco di Gerusalemme e ministro del governo di Ariel Sharon, quando questi viene colpito dall’ictus nel 2006 prende il suo posto alla guida del governo. Ma due anni dopo è indagato per un finanziamento non registrato di 150mila dollari: per i giudici, una tangente in cambio dell’appoggio al megaprogetto immobiliare Holyland, un ecomostro alla periferia della capitale. Lo scandalo è emerso anche grazie alla sua assistente personale Shula Zaken, che prima gli ha trasferito la somma e poi ha iniziato a collaborare con la giustizia, registrando di nascosto alcune conversazioni che lo incastrano. In quel momento Olmert è reduce dalla guerra nel Sud del Libano contro Hezbollah, sta per sferrare l’attacco a Gaza contro Hamas ed è impegnato nei negoziati con Usa e Abu Mazen, ma anche in contatti segreti con la Siria. Un momento cruciale per Israele, che trattiene il fiato per Sharon paralizzato in ospedale.
Eppure Olmert annuncia subito le sue dimissioni, senza gridare al complotto delle toghe laburiste, né invocare il primato della politica, né accusare i magistrati di sovvertire l’esito delle elezioni, né ricordare quanti voti ha preso, né cambiare leggi, né dimezzarsi la prescrizione, né reclamare un lodo per l’immunità dei premier, né tuonare contro le intercettazioni abusive, né prender tempo in attesa del Tribunale e della Corte Suprema, né sproloquiare di presunzione d’innocenza (prevista anche dalla Costituzione israeliana, ma ininfluente per un politico imputato). Anzi. In un messaggio tv alla nazione, dichiara: “Sono fiero di appartenere a uno Stato dove il premier può esser indagato come un semplice cittadino. Un premier non può essere al di sopra della legge. Se devo scegliere fra la consapevolezza di essere innocente e restare mettendo in imbarazzo il mio Paese, non ho dubbi: mi faccio da parte perché anche il premier va giudicato come gli altri. Dimostrerò che le accuse sono infondate, ma da cittadino qualunque”. In Tribunale viene condannato per corruzione a 6 anni, pena ridotta dalla Corte Suprema a 18 mesi perché è morto un teste d’accusa e la difesa non ha potuto interrogarlo. In Italia Olmert andrebbe ai servizi sociali, cioè resterebbe a piede libero (è così per le pene fino a 4 anni, cioè per i pochi processi per corruzione che scampano alla prescrizione). In Israele – come in tutti i paesi civili, escluso dunque il nostro – finisce dentro. E il suo arresto non provoca sconquassi politici, perché il leader detenuto è già da un pezzo un ex. Lì, per separare la giustizia dalla politica, i leader inquisiti saltano. In Italia saltano i giudici, o direttamente i processi.