La Stampa, 16 febbraio 2016
Tezer Özlü, la poetessa turca che era venuta a Torino per sposare Pavese. Storia di un amore impossibile
Alla fine degli Anni Settanta un’autrice turca si presenta all’hotel Roma, a Torino, e chiede di vedere la stanza dove Cesare Pavese pose fine ai suoi giorni. La richiesta non stupisce il personale, non è certo la prima volta che uno studioso bussa alla porta. Ma il suo caso è diverso, in qualche modo unico. Tezer Özlü è considerata una delle scrittrici importanti del suo Paese, poetessa di primo piano con una produzione di grande intensità, ma certamente sottile per quanto riguarda le prose di racconto, dure e nello stesso tempo liriche, a carattere autobiografico.
Una di queste, Le fredde notti dell’infanzia, viene ora tradotta per la prima volta in italiano dall’editrice Lunargento (di Mestre), ed è un frammentato romanzo di formazione nella Istanbul degli Anni Cinquanta, allo stesso tempo pittoresca e moderna. Ci parla del difficile, pavesiano mestiere di vivere, qui tra due culture; e del corpo ferito, dell’irruzione della follia, dell’ospedale psichiatrico e degli elettroshock, come ricorda nella prefazione Giampiero Bellingeri. È una Turchia forse irriconoscibile quella che ci viene raccontata, lontana dall’involuzione politico-religiosa di questi anni.
Tezer Özlü ebbe una esistenza travagliata (nasce nel ’43 e muore nell’86) tra ribellioni e disperata ricerca dell’amore, in cui irrompe Pavese come una sfida o una promessa. A Istanbul lo aveva letto e riletto fin quasi a identificarsi con lui, a immaginare un amore postumo, una salvezza possibile che andasse oltre l’immaginario. E aveva deciso che l’amore per Pavese non era solo letterario. Non sappiamo se abbia letto Pavese in turco o in tedesco, la sua seconda lingua appresa nel collegio delle suore austriache dove il padre, kemalista convinto, le aveva fatto compiere gli studi.
Sappiamo solo che lo lesse in parallelo con Kafka e Svevo, ma con incomparabile intensità. Venne a Torino, proseguì per Santo Stefano Belbo, incontrò Pino Scaglione, il Nuto della Luna e i falò, il testimone, il custode della memoria del «paese», chiedendosi dove finisse la letteratura e cominciasse la realtà. In lei Cesare Pavese continuava a vivere come una persona reale, nonostante tutto. Le parlava, la invitava a scrivere. Forse, in qualche modo fantasmatico, ricambiava il suo amore, era disposto ad essere «salvato».
Nella stanza 305, che nel frattempo era stata rinnovata, la Özlü percepisce quasi un senso di estraneità e di sconfitta, come se le fosse all’improvviso tolto qualcosa. Poi entra in bagno, e ha l’impressione di vedere una sorta di bara, il segno, anzi la presenza fisica di quel «suicidio interminabile» che ora «riempie la sua vita». Ha un mancamento, vive una sorta di trasfigurazione mentre l’immagine dell’incontro negato dalla realtà eppure incredibilmente «fisico» si allarga alla città. Torino le pare all’improvviso un territorio sepolcrale, simulacrale forse, funereo. Ha un moto di ribellione contro il paesaggio urbano, decide che a uccidere lo scrittore sono state le gallerie, i portici obnubilanti come cupe barriere alla luce, persino la solitudine del Valentino.
È curioso notare come si rovesci in lei l’immagine della città che tanto piacque a un altro illustre e inquieto cercatore, Friedrich Nietzsche, all’appuntamento con la follia. Ed è altrettanto curioso scoprire come anche qui si tratti di un appuntamento d’amore: «Ero venuta per amarlo e sposarlo – scrive nel suo diario di viaggi “La vita fuori dal tempo”, pubblicato originariamente in tedesco -, non avevo ancora amato alcun essere vivente». Ora non resta che attendere questo libro, dove lo scrittore italiano è il protagonista assoluto. Insieme con la storia, potente e allucinata, di un amore e di un matrimonio egualmente impossibili.