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 2016  febbraio 16 Martedì calendario

Renzi è bravo nel demolire, ma all’Italia serve qualcuno che sappia anche ricostruire e restaurare

Il governo Renzi ha due anni di vita. Qual è il consuntivo di questo biennio?
Il 63° governo della Repubblica è nato sulla base di una vittoria elettorale del Pd di un anno prima. Renzi, dopo aver conquistato la segreteria del suo partito, ha provocato la caduta del governo Letta. Un’iniziativa di partito ha portato, nel febbraio 2014, Renzi a Palazzo Chigi (si spiegano anche così le difficoltà incontrate dal governo in Parlamento con la sua stessa maggioranza).
Una volta nominato, Renzi ha messo a segno tre colpi da maestro. Ha costituito un governo non pletorico, di quarantenni e per metà di donne. È riuscito a ottenere una fiducia popolare posticipata, portando dopo tre mesi il suo partito al 40,8 nelle elezioni per il Parlamento europeo. Ha dato inizio a una politica di movimento, fondata specialmente sulle riforme istituzionali. Ha così differenziato il nuovo corso dal «ventennio buttato», quello di Berlusconi, «deludente se non fallimentare nell’arte del governare» (sono parole di un suo ministro). Se Berlusconi preferiva l’immagine dell’«outsider», attaccava quotidianamente le istituzioni ed era poco interessato alla stanza dei bottoni (come osserva Mauro Calise nel suo recente La democrazia del leader, Laterza, 2016), Renzi ha subito messo in cantiere e approvato le riforme costituzionale, elettorale e amministrativa e importanti interventi nel campo del lavoro e dei Beni culturali, con un record di circa 300 atti normativi approvati dal governo, riuscendo quasi sempre a evitare che la politica soffocasse le politiche.
Abile come tattico (meno come stratega), bravo nel negoziare (meno nell’ascoltare e argomentare), Renzi ha capito che doveva uscire dalla cittadella del suo partito, che lo difendeva e, nello stesso tempo, lo imprigionava, e conquistare altri elettorati ad alta mobilità, che preferiscono dare fiducie temporanee (come hanno fatto nel 1994). Per questo, Renzi ha messo nelle sue politiche anche un po’ di Berlusconi (giù le tasse), dei 5 Stelle (tetti agli stipendi pubblici), e di Salvini (l’Europa ci rovina), ed è riuscito a far risalire la fiducia dei cittadini nello Stato (peraltro ancora bassa, perché poco più di un quinto della popolazione ha fiducia nelle istituzioni). Come ha osservato Giuliano da Empoli, un anno fa, ne La prova del potere (Mondadori), Renzi è riuscito a compiere incursioni in territorio avverso recuperando temi, parole d’ordine e consenso al di fuori dei confini tradizionali del centrosinistra e a mettere l’energia del populismo al servizio di un’agenda di governo riformista.
All’interno della macchina statale, Renzi ha messo spazio tra se stesso e i ministri, si è privato dei consiglieri di Stato, ma ha rafforzato la Presidenza del consiglio. Questo non vuol dire che sia un «uomo solo al comando». Tutti gli altri poteri e contropoteri sono funzionanti ed efficaci e Renzi si mostra deferente nei loro confronti (salvo che con la Commissione europea), anche quando prendono decisioni per lui scomode.
Non ha vere opposizioni, né alternative, ma una corrente di opposizione (quella che gli ha dato maggiori grattacapi) nella sua stessa maggioranza parlamentare. Lo scarso peso di burocrazie e corporazioni non dipende dal fatto che Renzi non le ascolta, ma dalla loro incapacità di adeguarsi al cambiamento della società. Il rifiuto dei rituali sindacali non dipende da una sua indifferenza verso le comunità intermedie, ma dall’incapacità delle oligarchie sindacali di uscire dal loro medioevo.
Elencate le luci, veniamo alle ombre. Renzi, finite le riforme istituzionali, non è stato capace di riformulare una strategia, prospettando un futuro per l’Italia, con lo stesso coraggio dimostrato da Obama nel discorso sullo stato dell’Unione del gennaio scorso. Sente che nel Paese c’è sconcerto e malessere, incertezza e timore di un ristagno secolare, ma non riesce a convogliarli su obiettivi di governo.
Ha preferito spesso imboccare la strada più comoda: ad esempio, ridurre il carico fiscale non contenendo le spese, ma aumentando il deficit. Bravo nel demolire, non è altrettanto bravo nel ricostruire. Gli manca il gusto per la tessitura e il restauro, di cui l’Italia ha un grande bisogno.
Innovatore, non è riuscito, però, a esserlo fino in fondo, anche nello stile di governo, che ripete i moduli del passato, in cui c’è il regista, non la cabina di regia: agli impulsi non si accompagna l’ascolto, l’annuncio delle politiche pubbliche prevale sulla loro preparazione e sul loro disegno, gli affari urgenti prendono la mano a quelli importanti (che finiscono per ultimi), non ci si preoccupa di avvitare i bulloni e di controllare l’esecuzione e la realizzazione.
Insomma, Renzi ha dimostrato di essere bravo nello scatto, deve ora dimostrare di essere un «long distance runner». Efficace come uomo di governo, deve ora convincerci di essere anche uomo di Stato.