Corriere della Sera, 16 febbraio 2016
Per ora le pensioni di reversibilità non si toccano, ma non è detto che resteranno per sempre così
Alla fine il governo ha smentito. Non ci sarà alcuna stretta sulle pensioni di reversibilità, ha assicurato il ministro del Lavoro Giuliano Poletti. La polemica scatenata dal presidente della commissione Lavoro della Camera, Cesare Damiano (Pd), dalle opposizioni e dai sindacati ha funzionato. Le pensioni delle vedove non verranno toccate. Che questo potesse avvenire era il sospetto che circolava sulla base del disegno di legge delega sul contrasto alla povertà presentato dal governo. Testo che, in quanto delega, è necessariamente vago, limitandosi a dettare i principi che il governo dovrà seguire nei decreti attuativi del sussidio universale per i poveri. Poiché la legge di Stabilità stanzia per la povertà 600 milioni per il 2016, che saliranno a un miliardo di euro dal 2017, è evidente che le risorse sono insufficienti allo scopo (basterebbero in media a dare appena 244 euro all’anno a ciascuno dei 4,1 milioni di poveri assoluti, quelli che secondo l’Istat non sono in grado di acquistare un paniere di beni essenziali). Per questo la delega dice che altri fondi verranno dal riordino delle prestazioni assistenziali e di quelle previdenziali legate al reddito. Tra queste ultime vi sono anche le pensioni di reversibilità (esse infatti vengono garantite al superstite con un reddito fino a tre volte il minimo, cioè 1.505 euro lordi al mese, mentre subiscono già ora un taglio progressivo per chi ha redditi maggiori), benché nella delega non siano menzionate.
Bene hanno fatto comunque Damiano e gli altri a sollevare il caso, costringendo il governo a un chiarimento. Tutto risolto, dunque? Non proprio.
Le pensioni di reversibilità rappresentano un pezzo fondamentale dello Stato sociale per circa 4,3 milioni di «superstiti»: in buona parte vedove, che percepiscono per tutta la loro restante vita, in base al reddito, dal 30 al 60% di quella che era la pensione del marito deceduto. Per questa voce si spendono circa 41 miliardi di euro l’anno (che fanno 733 euro in media a testa per tredici mensilità). È vero, in un caso su tre l’assegno di reversibilità costituisce l’unica forma di reddito (il 67,5% dei percettori la cumula invece con altre pensioni), o comunque la principale, che si somma alla casa di abitazione lasciata in eredità dal coniuge. Ma è anche vero che, essendo legata all’imponibile Irpef del percettore, la reversibilità può andare anche a chi abbia pochi guadagni ma molta ricchezza (dai depositi in banca alle case). La riforma dell’assistenza contenuta nella delega suggerisce in generale di legare le prestazioni all’Isee, cioè all’indicatore della ricchezza familiare (redditi e patrimonio mobiliare e immobiliare) che certamente è più completo del reddito Irpef. Alla fine, pare di capire, non si farà nulla. La materia presenta troppi rischi. Da quello di creare nuovi poveri, che andrebbero comunque assistiti, a quello di costituire un precedente che autorizzerebbe strette anche su altre prestazioni ora non legate all’Isee. Per non dire dei rischi elettorali. Ogni volta che si parla di pensioni la tentazione di cedere alle strumentalizzazioni prevale sulle analisi più ponderate. Oggi molti tirano un sospiro di sollievo. Ma questo non significa che in futuro non si dovrà tornare sulla sostenibilità di prestazioni pensate per un’Italia che non c’è più: quella delle donne che, di regola, non lavoravano e non avevano di che mantenersi. L’Isee, se usato con criterio, può servire a redistribuire in maniera più equa le prestazioni. Senza scatenare una guerra tra vecchi e nuovi poveri.