La Lettura, 14 febbraio 2016
Il modello danese si è rotto?
La Danimarca è per noi il paesaggio fiabesco di Andersen, dei personaggi che hanno animato la nostra infanzia, così reali da resistere anche nell’epoca del virtuale. Ma è anche il modello della socialdemocrazia, dello Stato sociale che pensa ai cittadini, e dei cittadini che contraccambiano con fiducia. Come dimenticare, poi, il Paese europeo che ha salvato i suoi ebrei? Tuttavia, l’immagine della Danimarca, già scalfita dall’emergere di forze xenofobe, appare oggi, agli occhi di molti italiani, sotto una luce inquietante. Ha destato scalpore e sdegno l’introduzione della legge, varata il 26 gennaio dal Parlamento danese, che prevede la confisca dei beni ai profughi. Jens Christian Grøndahl, lei è tra le voci più autorevoli e apprezzate della letteratura danese contemporanea. Che cosa ne pensa di questa legge? Non trova che sia la negazione stessa di ogni etica?
JENS CHRISTIAN GRØNDAHL – Come altri Paesi, la Danimarca deve far fronte a un numero enorme di richiedenti asilo, dei quali più della metà emigranti in cerca di una vita migliore. Quel che infastidisce, nella nuova legge, è l’obiettivo: fare in modo che i rifugiati non vengano da noi. Certo, è disumano costringere chi ha ottenuto asilo ad aspettare non più un anno, ma tre, prima di chiamare a sé la propria famiglia. Ed è anche molto goffo, quasi surreale, pretendere che i poliziotti confischino i beni. Bisogna dire, però, che la legge è stata modificata e che ora non è previsto il sequestro di fedi nuziali e oggetti di valore affettivo. Leggi simili sono già applicate in Norvegia, Olanda, Austria e in alcuni Länder tedeschi. Ma questo, purtroppo, è il punto a cui siamo. Come il resto d’Europa, anche la Danimarca paga il prezzo per non essere stata in grado di cooperare, per aver permesso che il trattato di Dublino andasse a rotoli.
DONATELLA DI CESARE – A me sembra che il trattato di Dublino, purtroppo ancora vigente, secondo il quale l’identificazione avviene solo nel Paese d’ingresso, oltre a danneggiare i profughi, sia andato a scapito dell’Italia e della Grecia. E poi, una cosa è pretendere le tasse dai cittadini, altra è confiscare denaro e preziosi a chi cerca rifugio.
Per tornare, però, allo Stato sociale: ritiene che si debba parlare di una crisi del modello scandinavo?
JENS CHRISTIAN GRØNDAHL – Lo Stato sociale è estremamente costoso. Sebbene le tasse raggiungano ormai più della metà delle nostre entrate, la domanda crescente di servizi non può più trovare risposta. Il welfare poggia su un contratto sociale molto sottile, su una fiducia elevata fra cittadini e istituzioni, su un equilibrio delicato tra diritti e doveri. Dal punto di vista degli italiani capisco che il welfare danese possa apparire estremamente generoso. E in effetti lo è. Ma si basa anche sull’obbligo dei singoli cittadini.
DONATELLA DI CESARE – Di recente il filosofo tedesco Peter Sloterdijk ha criticato la politica di Angela Merkel, sostenendo che «abbiamo bisogno di frontiere» e che i limiti sono fatti per essere rispettati. Difende, insomma, lo Stato-nazione. Non posso in nessun modo concordare con lui su questo. Credo, al contrario, che tutti noi europei non avremmo mai dovuto permettere i muri e il filo spinato, in Ungheria e altrove. Lei pensa che abbiamo bisogno di frontiere?
JENS CHRISTIAN GRØNDAHL – Le tragedie del Mediterraneo non sarebbero accadute, se solo l’Europa avesse agito all’unisono, stabilendo il modo per condividere il peso e la responsabilità di accogliere i profughi, integrando quelli che hanno diritto ad avere protezione e mandando indietro quelli che non lo hanno. Il problema è che i rifugiati preferiscono chiedere asilo in Svezia o in Germania piuttosto che in altri Paesi.
Abbiamo bisogno di frontiere? Solo in una prospettiva logistica ed economica. E queste sono preoccupazioni reali. Pur nel nostro ruolo di intellettuali, non dobbiamo dimenticare i problemi pratici che i nostri politici devono affrontare. Tuttavia, finiremmo per squalificarci, sotto un profilo morale e culturale, se ci facessimo assalire dalla paura solo perché ci sono persone per le quali l’Europa è sinonimo di speranza. Credo che dovremmo restare aperti verso tutti coloro che desiderano dare il loro contributo alla vita sociale, ma dovremmo anche far sì che condividano i valori universali della democrazia e si lascino alle spalle quei costumi che non sono compatibili con le norme di una moderna società secolarizzata.
DONATELLA DI CESARE – Ho molte perplessità quando si parla di «valori universali». Se c’è un progetto che ha fallito, è l’universalismo. La ragione universale è sempre la propria – mai quella altrui. Sono stata di recente in Danimarca e ho avuto l’impressione che il razzismo sia in agguato e l’antisemitismo sia un fenomeno esplosivo. Basti ricordare l’attacco terroristico contro la sinagoga di Copenaghen il 15 febbraio di un anno fa.
JENS CHRISTIAN GRØNDAHL – Non credo che il razzismo sia un problema importante in Danimarca. Ci si può imbattere in una certa xenofobia, dovuta al fatto che la Danimarca è rimasta etnicamente omogenea e geograficamente isolata. È vero, però, che l’antisemitismo ha trovato nuove espressioni. Una di queste è l’antisionismo della sinistra: la critica alla occupazione dei territori porta a modalità nuove, talvolta quasi impercettibili, con cui si mette in questione il diritto di Israele a esistere. Inoltre c’è un antisemitismo latente fra i musulmani, che rappresenta il pericolo più grave. In alcuni quartieri di Copenaghen gli ebrei non possono camminare senza il timore di essere insultati. Lo stesso avviene, d’altronde, per i gay. Gli omosessuali hanno uguali diritti in Danimarca – e di ciò siamo orgogliosi.
Ecco le questioni rilevanti. Perciò, a mio avviso, il multiculturalismo può dirsi finito.
DONATELLA DI CESARE – Nei suoi racconti le donne sono spesso protagoniste. Sono donne fragili, ma anche capaci di giocare ruoli diversi, sul lavoro e nella vita privata. Come se potessero per questo attingere a una fonte antica, quasi preclusa agli uomini. Penso alla figura di Ingrid Dreyer nel suo romanzo Quattro giorni di marzo.
JENS CHRISTIAN GRØNDAHL – Appartengo a una generazione di uomini che sono già figli dell’emancipazione. Quattro giorni di marzo si basa sulla storia di mia madre, che ha divorziato da mio padre e ha lasciato la famiglia per seguire la carriera di fotografa e diventare se stessa in modo più compiuto. È stato doloroso, ma la simpatia per le sue scelte di vita fa parte della mia formazione. Questo spiega forse perché i miei romanzi abbiano spesso come protagonista una donna forte, emancipata, ma che avverte anche la solitudine, l’angoscia, i dubbi che formano il lato oscuro della libertà. Nel libro descrivo tre generazioni di donne che si dibattono nel conflitto tra la realizzazione personale e la responsabilità. Di qui ho tratto ispirazione per la mia scrittura. E ho deciso che il mio ruolo sarebbe stato giocato da un personaggio femminile. Immagino spesso di scrivere dal punto di vista di una donna. Certo, in quanto uomini e donne siamo differenti. Ma non dobbiamo ridurci ai nostri generi. La letteratura dischiude la nostra immaginazione, come scrittori e come lettori; ci permette di immedesimarci e soprattutto ci ricorda che dell’altro conosciamo molto più di quel che siamo disposti ad ammettere.
DONATELLA DI CESARE – L’emancipazione delle donne è per lei un punto di non ritorno...
JENS CHRISTIAN GRØNDAHL – Esatto. Gli assalti sessuali a Colonia sono un campanello d’allarme. L’uguaglianza è il cuore stesso della società danese, dove uomini e donne preferiscono il presente, con i suoi conflitti e dilemmi, rispetto al passato patriarcale. Ogni rifugiato dovrà separasi da questa parte della sua cultura che gli impedisce il rispetto per le donne. Lo dobbiamo a noi stessi e lo dobbiamo alle donne che vengono da culture basate sulla repressione e la violenza.
DONATELLA DI CESARE – Eppure, come forse saprà, la violenza sulle donne si consuma quasi quotidianamente anche in Italia.
JENS CHRISTIAN GRØNDAHL – Sono costernato. Penso che tutti gli uomini dovrebbero sentirsi responsabili. È sbagliato accettare che una certa dose di aggressività latente faccia parte del make up psicologico maschile. Non c’è quasi uomo che non si senta intimidito dalle donne autonome. Può scegliere allora di reagire con la violenza – o con le armi più sottili del disprezzo e dell’arroganza. È la conferma che aveva tutti i motivi per sentirsi inferiore. Oppure può liberarsi dall’idea di dover essere superiore e dominante. Ma non si deve sottovalutare il timore profondo che gli uomini nutrono per la sessualità femminile. Cultura non è forse altro che il controllo esercitato dagli uomini sulla forza bruta di fronte al desiderio femminile.
DONATELLA DI CESARE – Lei viene spesso in Italia. Anche per scrivere. In cerca, dunque, di ispirazione. Certo, non di tranquillità...
JENS CHRISTIAN GRØNDAHL – Vengo in Italia da quando avevo 14 anni. Ricordo ancora quando a Firenze ho ammirato la prima volta dalle colline la cupola di Brunelleschi. Un’epifania. Ho sempre la sensazione strana di tornare a casa. È una questione, per dirla con Goethe, di «affinità elettive». Di solito vengo sempre a Roma – per scrivere, camminare, pensare. Ho un grande rispetto per il vostro stile di vita, la cura dei dettagli. Solleva l’anima.
DONATELLA DI CESARE – Eppure i problemi non mancano. Se penso agli studenti universitari che hanno dovuto andare via! Qui mancano i fondi per la ricerca. Alcuni sono anche nelle vostre università.
JENS CHRISTIAN GRØNDAHL – Mi rattrista moltissimo che così tanti giovani abbiano difficoltà a trovare un lavoro, a costruirsi una famiglia. Le generazioni più vecchie non vogliono mettersi da parte?
DONATELLA DI CESARE – Nei giorni scorsi lei è stato a Lampedusa...
JENS CHRISTIAN GRØNDAHL – Due anni fa, nel mio ultimo soggiorno a Roma, ho scritto un lungo saggio sull’identità europea. Questa volta cerco di proseguire quelle riflessioni provando a comprendere meglio le sfide che ci aspettano. In che modo la crisi dei rifugiati ha cambiato la percezione che abbiamo di noi stessi, come italiani, come danesi, e come europei? A Lampedusa ho incontrato autorità municipali e cittadini. Voglio capire cosa è avvenuto in una comunità così minuscola, lontana dalla terraferma; voglio stare letteralmente nel mezzo della tragedia. Per una volta, dunque, lo scrittore resta in silenzio e si mette in ascolto.