Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2016  febbraio 14 Domenica calendario

Così letteratura, scuola, informazione, cinema e arte si sottomettono all’«impero del Bene», moralista e conformista

«Il campo del bene», «la sinistra morale», il «politicamente corretto»... Intorno a quella che viene considerata «la nuova battaglia ideologica», la Revue des deux mondes ha costruito un dossier di un centinaio di pagine come cuore del suo ultimo numero (febbraio-marzo 2016). In esso, storici, sociologi, critici d’arte e letterari, giornalisti e politici si accapigliano sul tema: c’è chi elogia il «pensare bene» e chi critica i benpensanti, di destra e di sinistra, chi se la prende con il progressismo e chi ne riscrive la storia, chi ironizza sul tartufismo ipocrita del «libero pensiero» e chi nega di voler «diabolizzare» l’avversario, anche se, sottintende, con il Diavolo non si discute, lo si combatte...Vent’anni fa, in quello che resta un classico in materia, La cultura del piagnisteo, Robert Hughes si era mostrato fiducioso: «Un’abitudine tipicamente americana» l’aveva definita. «L’appello al linguaggio politicamente corretto, se trova qualche risposta in Inghilterra, nel resto d’Europa non desta praticamente alcuna eco». Mai profezia si è rivelata più avventata, nel piccolo come nel grande, nella politica come nella cronaca, nella tragedia come nella farsa. Giorni fa, nello spiegare l’invio di militari intorno alla diga di Mosul, in Iraq, il nostro ministro della Difesa ha detto che sarebbero andati lì «per curare i feriti» e il suo collega degli Esteri ha specificato che non andavano certo «per combattere»... L’idea del soldato-infermiere e/o portatore di caramelle è singolare e richiama alla mente la neo-lingua e il bis-pensiero del George Orwell di 1984: «La libertà è schiavitù, l’ignoranza è forza», mentire con purità (...)(...) di cuore, «negare l’esistenza della realtà obbiettiva e nello stesso tempo trarre vantaggio dalla realtà che viene negata»...D’altra parte, «la guerra è pace» è in fondo poca cosa rapportata alle dichiarazioni con cui, poco tempo fa, il rettore di un college inglese ha deciso che «il ragazzo è una ragazza» e viceversa, e quindi a scuola gonne e pantaloni sono optional: il sesso non si dà, si sceglie. Se, indeciso, lo studente/la studentessa, si presentasse nudo/nuda alla meta, ovvero in classe, non è dato sapere se frequenterà le lezioni... E naturalmente, i guerrieri della pace e/o i pacifisti della guerra, gli uomini-donne e/o le donne-uomini fanno anche loro parte di quella corrente di pensiero che ha stabilito che immigrati e emigranti erano un retaggio del passato, di quando insomma non eravamo esseri umani: «migranti» rende meglio il concetto, qualsiasi cosa con esso si voglia dire. È l’onda lunga di quella che Hughes aveva definito la Lourdes linguistica, dove il male e la sventura svanivano grazie a un tratto di penna, ma è la stessa idea di natura umana che il pensiero progressista, ovvero «il campo del bene», ovvero «il politicamente corretto» guarda con sospetto. Niente è più irritante dell’avere una identità, di uomo e di cittadino. Come spiega lo storico Jacques Julliard alla Revue des deux mondes, corrisponde «alla caricatura dell’idea sartriana che l’uomo non è ciò che è, ma ciò che fa. Alla filosofia del progresso che era quella del XIX secolo, si è sostituita la filosofia del volontarismo individuale: la decostruzione di ogni identità individuale a beneficio di una libertà pura nella quale la filosofia greca avrebbe visto una sorta di hybris, di rivolta contro la natura che gli dei ci hanno dato. Ecco il fondamento filosofico ultimo della sinistra morale». Il fatto è, dice ancora Julliard, che l’uomo è un essere storico, e ciò che c’è di più presente in lui è il suo passato. Viene anche da qui quella strana «teologia negativa» per la quale si nega la propria identità per far emergere quella dell’altro. Così, nella Francia del laicismo scolastico, puoi avere dei programmi dove l’islam diviene obbligatorio, mentre il cristianesimo è facoltativo...La «cultura dell’eufemismo» vuole le eccezioni preferite alle regole, le minoranze alle maggioranze, le orizzontalità alle verticalità, e grazie a lei la contro-verità diventa una verità. Nel «campo del bene», spiega alla Revue des deux mondes il filosofo Jean Pierre Le Goff, l’emozione e i buoni sentimenti la fanno da padrone. Non si vuole cambiare la società con la violenza, e la classe operaia ha smesso da tempo di essere oggetto di interesse. Si tratta invece di rompere con «il vecchio mondo» estirpandone le idee e i comportamenti ritenuti retrogradi, in specie nel campo dei costumi e della cultura. Non ha un modello chiavi in mano di società futura, ma una sorta «di armatura mentale: svalutazione del passato e della nostra tradizione; appello incessante al cambiamento individuale e collettivo, reiterazione dei valori generali e generosi che porteranno alla riconciliazione e alla fratellanza universali. Da un lato i buoni, dall’altro i cattivi»...Relativista, antiautoritario, edonista, moralista e sentimentale. Anche libertario? Le Goff dice di no: «Esercita una polizia del pensiero e del linguaggio di un genere nuovo. Non taglia le teste, fa pressione e ostracizza». A sentire i difensori del «politicamente corretto», per esempio il direttore di Libération Laurent Joffrin, si tratterebbe di una balla. Essere progressisti vuol dire fondarsi sui valori universali di eguaglianza e giustizia per giudicare le situazioni contemporanee. Le idee progressiste, insomma, sono politicamente corrette proprio perché progressiste, e del resto, per restare sempre in Francia, non siamo di fronte a un affollarsi di pensatori reazionari, sulla stampa come alla televisione, sempre lì a dire che sono proscritti e intanto però a scrivere e a parlare senza impedimenti e con qualche lucro: libri, programmi, rubriche eccetera? Sono loro «il vero pensiero unico»...Le cose sono un po’ più complicate, e trasformare una minoranza che dissente in maggioranza che ha potere rimanda ancora al bis-pensiero e alla neo-lingua orwelliani. Per quel che si sa, nessun professore universitario viene fischiato dai suoi studenti per essersi richiamato all’ideologia dei diritti dell’uomo e a quella del progresso, e quindi l’ideologia dominante è ancora quella lì ed è ancora saldamente al suo posto. Solo che è un disco rotto, non inventa più niente e quindi più che alla confutazione del pensiero altrui si dedica alla sua delegittimazione: non dice che è falso, dice che è cattivo o che, oggettivamente, fa il gioco del cattivo, del Male, del Diavolo. Non interessa se le opinioni possono essere giuste, conta che possano essere strumentalizzate contro il «campo del bene», «l’impero del bene»... Si arriva così all’assurdo di dichiararsi per la libertà di espressione, purché però la si pensi allo stesso modo.Naturalmente, c’è anche un benpensantismo a destra, un politicamente corretto che non è solo o tanto la retorica del definirsi politicamente scorretti, una sorta di esaltazione per il rutto intellettuale scambiato per schiettezza anticonformista. È una questione più delicata. In Francia l’hanno ribattezzata «droite no frontier», ovvero il sogno della libertà economica, il capitalismo libertario e senza confini che però non dovrebbe confliggere con i valori familiari e morali. Si esalta il mercato planetario di massa, ma non si ammette che dietro c’è «l’uomo nomade», che al mercatismo del mondo corrisponde quello dell’essere umano. In questo i due benpensantismi, di sinistra e di destra, finiscono per darsi la mano: il primo sogna la libertà illimitata di agire sul naturale umano e però fa finta di rifiutare la libertà economica del mondialismo; il secondo prende per buona quest’ultima, ma finge di credere che non lo riguardi nella sua quotidianità. Entrambi tartufi, politicamente corretti.

Stenio Solinas

*****

Letteratura
Dalla censura, specie attraverso l’intimidazione e la violenza, fino all’autocensura in tre tappe fondamentali. Prima. La fatwa di Khomeini che condannava a morte Salman Rushdie nel 1987 per aver scritto I versi satanici. Seconda. I processi per istigazione al razzismo intentati a Michel Houellebecq e Oriana Fallaci nel 2002. Terza. La vicenda delle vignette danesi su Maometto, cominciata a Copenaghen nel 2005 e terminata a Parigi con la strage di Charlie Hebdo nel 2015. In questi anni abbiamo imparato la lezione, iniziando a censurarci da soli. Mark Twain: Huckleberry Finn razzista per la parola «nigger» (negro) sostituita da «slave» (schiavo). Astrid Lindgren: Pippi Calzelunghe razzista per l’espressione «Re dei negri» sostituita da «re dei Mari del Sud». Repulisti anche per Roald Dahl (Charlie e la fabbrica di cioccolato, troppi pigmei), Michael Ende (Il mangiasogni, troppi negri), Christopher Marlowe (Tamerlano il grande, troppo Maometto), Agatha Christie (Dieci piccoli indiani, nell’edizione del 1939 si intitolava Dieci piccoli negri). Accuse di razzismo e/o sessismo sono piovute anche su Cormac McCarthy, Saul Bellow, Martin Amis, sir Vidia Naipaul. Per Joyce Carol Oates e altri scrittori, Charlie Hebdo non meritava il Pen (alla memoria) perché la rivista giocava con stereotipi islamofobi. Ma anche Joyce Carol Oates ha ricevuto la stessa accusa per un tweet: «Dove l’abuso sessuale e lo stupro è epidemico – Egitto – viene naturale domandarsi: qual è la religione dominante». Eric Zemmour ha invece perso il posto in tv per aver detto che l’immigrazione di massa è una forma di contro-colonialismo. Il «capolavoro» degli ultimi mesi però è stato segnalato da Ernesto Galli della Loggia sul Corriere della Sera: i redattori della casa editrice Flammarion, seguiti a ruota da quelli di Bompiani, sono riusciti a riassumere, nella quarta di copertina, il romanzo Sottomissione di Michel Houellebecq senza nominare, neppure di straforo, l’islam. Un salto di qualità: dalla manomissione alla omissione delle parole.
Alessandro Gnocchi

*****

Grazie a Dio, se si può ancora dire, nella scuola italiana non siamo giunti al livello di paranoia censoria che impazza negli Usa, dove autori come Pound, Shakespeare e Dante sono espunti dai programmi scolastici perché giudicati razzisti e omofobi. I guardiani della correttezza politica, non potendo cambiare le cose cambiano le parole, come è recentemente successo al prestigioso Oxford Dictionary, la Bibbia della lingua inglese, accusato di sessismo per espressioni come «nagging woman» (donna asfissiante), che secondo il temerario autore della denuncia deve essere abolita perché discriminante, come lo sono gli aggettivi «shrill» (stridulo) e «grating» (sgradevole), anch’essi associati a qualcosa di femminile, nella fattispecie il tono di voce. Privo del senso del ridicolo, e ignaro che gli stessi lemmi si trovano negli altri dizionari come Longman e Cambridge, il nostro eroe ha insistito a denunciare l’orrido misfatto fino a quando la redazione del dizionario ha ceduto, promettendo di cambiare gli esempi nelle prossime edizioni. Oxford deve risultare particolarmente attraente per i custodi della legalità lessicale, dato che proprio nella sua università è stato cancellato un dibattito sull’aborto perché le studentesse sarebbero state offese dalla presenza, tra i relatori, di «una persona senza utero» (cioè un uomo). Tali cime di stupidità sono, da noi, ancora inviolate. Per ora, lo zelo censorio si manifesta soprattutto nell’abolizione del Natale per non turbare gli stranieri, come è successo un paio di mesi fa in alcune scuole del Milanese e della Bergamasca, e nello strepitoso annullamento, da parte del consiglio interclasse della scuola elementare «Matteotti» di Firenze, di una visita alla mostra sulla «Bellezza divina», «per venire incontro alla sensibilità delle famiglie non cattoliche». Restiamo in attesa di un altro annullamento, quello della dicitura «padre» e «madre» sostituiti da «genitore 1» e «genitore 2». Ma non illudiamoci: forse è soltanto perché non si vuole avallare una discriminazione ancora più evidente, quella tra il numero uno e il due.
Luca Gallesi

*****

Informazione
Il politicamente corretto nell’informazione e nei media ha effetti gravi, anche se poco visibili. Il caso più evidente resta quello delle vignette sul profeta Maometto pubblicate da Charlie Hebdo. Dopo gli attentati di Parigi tutti si sono sentiti di essere «Charlie». Ma alcune testate non abbastanza da pubblicare le stesse vignette (come il New York Times o il Washington Post). Sì, l’Europa e gli Usa sono laici, nessun problema per esempio a produrre un titolo che prenda di petto la sensibilità dei lettori cristiani, però a fare lo stesso con dei lettori di religione islamica ci si sente subito in imbarazzo. Tanto che più che di politicamente corretto, in molti casi si potrebbe parlare di islamicamente corretto. Qualcuno potrebbe spiegare in questo modo anche il successo del termine Daesh di recente diffusosi per prendere il posto di Isis in quasi tutti i giornali. Attenzione, può sembrare una questione di lana caprina (del resto il politicamente corretto ne è pieno) ma non poi tanto. I due acronimi hanno circa lo stesso significato ma uno è in inglese e l’altro è in arabo. Il primo però fa perdere al lettore ogni riferimento comprensibile allo Stato islamico. L’input è venuto dalla politica, il francese Laurent Fabius, ha spiegato che Daesh ha il vantaggio di non dare al gruppo la dignità di Stato. Ban Ki-moon, il segretario generale dell’Onu, ha assunto un’analoga posizione, denunciando il gruppo come un «Non-stato, non-islamico». Ma si tratta di foglie di fico linguistiche ridicole. Persino parlando degli ultimi attentati a Parigi c’è chi ha centellinato «islamico» nei titoli. Questi sono esempi macroscopici ma la tendenza a normalizzare le parole, sino a spingere i giornalisti all’autocensura è fortissima. Succede anche su un argomento delicato come l’immigrazione. Esistono tutta una serie di termini vietati, che nel caso dell’Italia, rientrano in un elenco stilato dall’Ordine dei giornalisti. Tra le parole che non possono essere usate anche zingaro. Sarebbe un termine «stigmatizzante». L’intento è forse lodevole, il risultato spesso grottesco. L’informazione sempre più reticente.
Matteo Sacchi

*****

Difficile dire cosa sia peggio: censura di Stato o autocensura? Il cinema e la tv sono paradigmatici. In Italia, in attesa della nuova legge promessa da Franceschini, vige ancora la revisione di Stato che influisce pure sui passaggi tv, dove però ciò che conta è soprattutto l’autocensura. E infatti, forse l’avrete notato, non esiste più nemmeno la satira. Ma tutto il mondo è paese e il politicamente corretto non conosce frontiere. Arrivando a minare pure la libera Francia, la quale, impaurita dai recenti attacchi, sta però rispondendo con eccessiva sottomissione. La nuova parola è «deprogrammazione», che ha colpito film eterogenei come Made in France di Nicolas Boukhrief, il cui manifesto con il kalashnikov al posto della Torre Eiffel è scomparso, o Salafistes di François Margolin e Lemine Ould Salem, o il bellissimo Timbuktu di Abderrahmane Sissako, bandito dal sindaco della cittadina Villers-sur-Marne. Ma la censura, pure retroattiva, s’è appena abbattuta su Antichrist di Lars von Trier a cui la Corte d’appello amministrativa di Parigi, accogliendo il ricorso del gruppo cattolico Promouvoir, ha tolto il visto di proiezione, sette anni dopo. Dunque guai a toccare la religione, così nel 2010 l’irriverente cartoon South Park alle minacce di alcuni estremisti ha risposto inserendo un bip sulle parole del profeta Maometto. Parole, parole e parole... Celebre la querelle tra Spike Lee e Quentin Tarantino con il regista afroamericano che attaccò Django Unchained perché la parola «negro» veniva utilizzata 38 volte. Poco importa se filologicamente era corretto, visto il periodo storico. Sempre Spike Lee si è recentemente scagliato contro i prossimi Oscar perché tutti i candidati sono bianchi. L’Academy, invece di rispondere che tutti i colori sono uguali, in pratica ha detto che, dopo le quote rosa (esiste anche il cosiddetto Bechdel Test per capire il grado di sessismo in un film), ci saranno anche quelle nere. United Colors of Politically Correct.
Pedro Armocida

*****

Opportunismo e paura sono i sentimenti prevalenti nel mondo dell’arte. Il caso delle statue coperte ai Musei Capitolini per la visita dell’iraniano Rohani non è l’episodio più grave, poiché almeno è stato temporaneo (anche se il mondo intero ne ha riso). Molto peggio quel che è accaduto al Rjiksmuseum di Amsterdam un tempo città sinonimo di libertà – dove la direzione ha deciso di cambiare nome a un centinaio di quadri che contengono parole discriminatorie. Robert Hughes, l’autore de La cultura del piagnisteo (Adelphi), rabbrividiva pensando a quando nelle università americane non si sarebbe più utilizzato il termine «chairman» per non offendere le donne, ma cosa avrebbe detto di fronte a una Ragazza negra questo il titolo originale di un’opera di Simon Maris del 1900 – trasformato in Ragazza col ventaglio? E davanti a spiegazioni come questa: «Finora abbiamo trovato 132 opere la cui descrizione contiene la parola negro – ha detto al New York Times Martine Gosselink, direttrice del dipartimento di storia del Rijkmuseum – e cambiare quelle è stato facile. Ma è più difficile con parole come ottentotti: è usato per indicare il popolo Khoi del Sudafrica, ma in olandese significa balbuziente». L’arte, di questi tempi, ben si guarda dal toccare la questione islamica, un sentimento motivato dalla paura, ma allo stesso tempo si preoccupa di non offendere le donne, gli omosessuali, le minoranze etniche: e così facendo ne sottolinea ulteriormente la condizione di debolezza. Oggi non sarebbe più possibile a un performer come Gino De Dominicis proporre, alla Biennale di Venezia, un’opera come Seconda soluzione d’immortalità, che nel 1972 provocò scandalo. L’artista aveva scelto di esibire un down reale in mezzo a quadri e sculture.
Luca Beatrice