La Stampa, 12 febbraio 2016
Egeo, le acque gelide che uccidono i profughi
«Una mattina all’alba ci chiama la guardia costiera greca, erano i primi giorni di gennaio, un freddo infernale. Tempo tre minuti e noi del team medico più due soccorritori siamo a bordo della lancia diretti al luogo del naufragio, davanti ad Agathonissi, l’isola detta degli spilli perché gli scogli sono a pelo d’acqua e i gommoni si squarciano come fossero di carta. Mi accorgo al volo che tra quelle 50 persone, quasi tutte famiglie siriane, c’è una mamma con in braccio un bambino di due mesi in ipotermia profonda. Un altro di tre anni è già morto, ci sono diversi ragazzini sanguinanti sulla riva.
La donna urla in arabo, ha accanto il marito e altri 4 figli, è ferita come tutti ma il piccolo non respira, il cuore tace, la pelle ha un colore bluastro, marezzato. In casi così la salvezza è questione di istanti, una lezione che insegna solo l’esperienza. Lo portiamo in un capanno pieno di cani, c’è un tavolaccio ma almeno siamo a terra. Mi getto a rianimarlo e non smetto fino al primo battito, un’ora dopo, uno sforzo fisico enorme. Poi il bambino reagisce, apre gli occhi, è fuori pericolo...».
Giada Bellanca, 31 anni, siciliana di Sciacca, medico specializzato in emergenze e disastri, lavora da due anni per il Corpo Italiano di Soccorso dell’Ordine di Malta con cui ha accompagnato le operazioni «Mare Nostrum» e «Triton», al largo della Libia. Dal 15 dicembre scorso fa parte dell’equipaggio della «Responder», la nave in missione di soccorso nell’Egeo che in meno di due mesi è intervenuta già 15 volte e ha restituito alla vita 529 persone, di cui 59 bambini.
Il suo è un racconto in prima linea, giorno e notte con turni di un mese a contendersi con il mare la vita di chi fugge dalla morte: «L’Egeo è diverso dal Mediterraneo, lì intervenivamo anche a 200 miglia di distanza, qui i tempi di salvataggio sono brevi, due ore in tutto. Ma per paradosso è più pericoloso, perché è un mare chiuso dove le correnti cambiano rapidamente e perché i migranti vedono la riva e pur non sapendo nuotare contano di farcela mentre basta un po’ di vento perchè affondino nelle acque gelide a pochi metri da terra».
Le immagini del cadavere del piccolo Aylan Kurdi hanno fatto il giro del mondo, il destino di migliaia e migliaia come lui passa anche tra le dita forti come uncini di chi tende loro la mano: «A Lampedusa ho visto la Guardia Costiera fare cose fantastiche, si buttano con onde assurde e tirano su uomini pesantissimi. Quello è un momento terribile, i migranti si accalcano terrorizzati, io sono sul ciglio della lancia e li prendo dai soccorritori che li spingono a me dall’acqua o dal gommone. Una volta davanti a Lesbo c’era una signora di almeno ottant’anni, enorme, il gommone stava affondando e lei era inerme, un peso morto, l’ho afferrata dalle ascelle altrimenti le avrei spezzato le braccia».
Da quando è in mare la dottoressa Bellanca ha soccorso 14mila persone, siriani, malesi, eritrei, un matematico senegalese che voleva continuare l’università: «Il bimbo siriano e la sua famiglia li ho rivisti due giorni dopo a Samos, cercavano il centro di accoglienza, gli ho dato dei biscotti, erano poveri. Dopo li ho persi, come tutti, quando congedandoci ci diciamo “insciallah” non posso e non voglio sapere più nulla, ho fatto un giuramento e non m’importa chi salvo, da dove viene, cosa fa. Li porto a terra mostrando loro la riva, “l’Europa”, e ripetendo “you are safe”, controlliamo insieme che il contenuto degli zainetti sia intatto, imballano i cellulari e gli Ipad con così tanti strati di cellophane da resistere a immersioni di ore, poi ci salutiamo. C’era un medico siriano che voleva andare in Germania per curarsi un tumore al rene, era un collega bravo sui 63 anni, era con la moglie e i figli, spero tanto che sia arrivato».