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 2016  febbraio 12 Venerdì calendario

Il romanzo-capolavoro che però non piace ai lettori. Lo strano caso di “City on fire”

Per noi newyorchesi, o per i turisti che accorrono qui a milioni, poche cose eccitano la fantasia quanto i paragoni fra la rassicurante, dinamica e creativa metropoli di oggi, e l’inferno che fu negli anni Settanta/Ottanta. Le rinascite sono possibili! Non che la Grande Mela sia diventata un vero paradiso: gli homeless sono ai massimi storici, le diseguaglianze pure, la “gentrification” espelle il ceto medio da Manhattan e da Brooklyn.
E tuttavia nessuno, proprio nessuno, può rimpiangere la violenza, la frequenza degli omicidi, le rapine, l’impunità del crimine: di certo non i senzatetto, che erano allora le prime vittime di aggressioni mortali. Donde la comprensibile voluttà che proviamo nel tramandarci aneddoti di Sodoma e Gomorra, i tempi in cui Harlem era off-limits per noi bianchi (oggi è uno dei quartieri della movida notturna, blues, jazz e ristoranti), l’orrore del blackout del 1977 quando una parte della popolazione si scatenò in assalti ai negozi e alle persone, la tragedia della giovane dirigente di banca stuprata e ridotta in fin di vita a Central Park nel 1989. Furono anche gli anni in cui l’epidemia di Aids fece un’ecatombe. Senza parlare dell’economia agonizzante: fra la tremenda crisi di bilancio che portò New York sull’orlo della bancarotta, e l’inizio del neoliberismo reaganiano.
Insomma ci sarebbe di che scrivere un grande romanzo storico su quella New York scomparsa, giusto? Certo. Ma quel romanzo esiste già. È Il falò delle vanità di Tom Wolfe, anno 1987. Un vero capolavoro, un affresco ambientale come lo intendevano i maestri dell’Ottocento, tuttavia scritto senza scimmiottare meccanicamente gli artifici di Dumas e Balzac, Dickens e Zola. Non a caso Wolfe era stato con Truman Capote e Norman Mailer uno dei pionieri del New Journalism.
Che cosa accade invece quando un critico letterario, un editor di grido e una grande casa editrice complottano insieme per rifare l’operazione a tavolino, programmando scientificamente la costruzione di un “capolavoro”? Un disastro. Non c’è marketing che tenga, non c’è manipolazione pubblicitaria né complicità dei librai e dei critici che possa imporsi se i lettori non ci stanno. È il meritato castigo che ha colpito City on Fire, (in italiano Città in fiamme, ora in uscita da Mondadori) flop dell’industria editoriale americana. Monumentale, lanciatissimo, pompato con tutti i mezzi possibili, ha fatto scorrere fiumi di inchiostro. E ha lasciato indifferenti gli unici che contano davvero, quelli che lo devono comprare e poi leggere.
I protagonisti di questa storia sono tre. L’autore: Garth Risk Hallberg, 37 anni, critico letterario al suo debutto come romanziere- rivelazione. La sua celebre editor: Diana Tejerina Miller. La casa editrice, il colosso Knopf del conglomerato Knopf-Random House-Doubleday. C’è l’anticipo da urlo che eccita la fantasia dell’ambiente: 2 milioni di dollari a scatola chiusa. I diritti cinematografici venduti a peso d’oro a Scott Rudin, produttore del film The Social Network sulla storia di Mark Zuckerberg-Facebook. C’è la cerchia dei complici “oggettivi”, dal magazine Rolling Stone ad alcune grandi firme del giornalismo culturale come Michiko Kakutani ( New York Times) e Frank Rich (sul supplemento libri dello stesso quotidiano) che inizialmente sia pure con qualche riserva si prestano al lancio del presunto capolavoro. C’è infine la prova del delitto: un tomo da 900 pagine. Personaggi in scena: alcuni rampolli di un finanziere di Wall Street; una ragazza assassinata a Central Park; più una fauna umana che cerca di ricostituire l’atmosfera trasgressiva, sperimentale, un po’ nichilista e disperata di quegli anni tra violenza post-politica e avvento della musica punk-rock. La trama converge verso l’evento centrale, il memorabile blackout del 13 luglio 1977, quando New York viene saccheggiata in una spirale di violenza incontrollabile. (Un momento davvero infernale, vertiginoso, che dà la misura del cambiamento avvenuto: dall’11 settembre 2001 fino al più recente uragano Sandy del 2012, quando New York si è trovata nuovamente sull’orlo del baratro ha reagito non con il caos ma con la solidarietà civica).
Per massaggiare i muscoli della rete vendita l’editore non risparmia né i soldi né le iperboli. Hallberg viene descritto come il nuovo Dickens o il nuovo Galsworthy (l’autore de La saga dei Forsyte), pur essendo un provinciale della North Carolina che ha studiato la New York degli anni Settanta/Ottanta sui libri. Miller dice di essere stata letteralmente «trasformata come persona, dopo averlo letto». Al primo lancio americano del 13 ottobre scorso molti abboccano. Rolling Stone titola sul «miglior romanzo newyorchese dell’anno», seguito da interviste tv e radio dell’autore, un book-tour fragoroso in 14 città d’America, recensioni al- tisonanti o quantomeno timorose su tutti i principali media. A non cascarci è il pubblico. Un mese e mezzo dopo il battage pubblicitario, il New York Post è il primo a rivelare che Città in fiamme langue all’825esimo posto nella classifica delle vendite su Amazon. Anche un critico autorevole si dissocia subito dal coro. Christian Lorentzen sul New York Magazine online lancia la contro-verità, attacca «la pletora di personaggi, le trame così complicate da spezzarsi, la lunghezza eccessiva». Impressionato dalla modestia delle vendite, il New York Times prende diplomaticamente le distanze dai suoi stessi critici letterari, in un articolo di Stuart Emmrich confinato nella sezione Fashion&Style dà atto del flop e ammette che forse anche stavolta si è rivelata prematuro l’annuncio del Grande Romanzo Americano.
Il futuro dirà se avevano ragione i primi entusiasti. Tra un secolo sarà riscoperto come un grande incompreso, un autore “troppo difficile” per i suoi contemporanei? Nell’attesa, e nel dubbio, il verdetto che conta è quello del primo lettore il cui sbadiglio ha contagiato, avvertito, immunizzato tanti altri. Lasciando storditi quelli che credevano di avere inventato l’algoritmo del bestseller perfetto.