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 2016  febbraio 11 Giovedì calendario

Giampaolo Pansa racconta i suoi ottant’anni da rompiscatole

«Giampa, tu vuoi sempre sapere la rava e la fava», gli diceva sua madre Giovanna. Anche quando era un liceale di Casale Monferrato (Al), prima cioè di fare una strepitosa carriera giornalistica fra quotidiani e settimanali, prima di vendere milioni di copie col grande racconto dei vinti del 1945, i fascisti paria della storia, prima cioè di essere Giampaolo Pansa, era comunque un bel rompiscatole.
E si chiama così, Il rompiscatole, il libro che esce oggi per Rizzoli.

Un’autobiografia che percorre gli 80 anni, compiuti a fine 2015, ma anche i 55 di giornalismo. Un grande affresco di vita, di cronaca, di politica, di storia, comico e tragico, sul cui sfondo c’è l’Italia, ci siamo un po’ tutti.
Domanda. Pansa, diciamo la verità, il titolo giusto avrebbe dovuto essere «Il rompicoglioni». Perché lei ha scelto di esserlo praticamente sempre.
Risposta. È vero (ride). Ma non si può dare un titolo così a un libro, via.
D. Lei ha sempre un po’ rotto. Nella sua breve parentesi al Corriere, disse pure a Bruno Tassan Din, potente direttore generale, arrabbiato per un articolaccio sulla Dc, di chiedere al direttore il suo licenziamento, se credeva.
R. Sì, ma lui rispose che non l’avrebbe fatto perché ero un «patrimonio del giornale».
D. Quando era vicedirettore di Repubblica, fece arrabbiare tanti colleghi di sinistra, scrivendo del «giornalismo dimezzato».
R. Dissero che avevo fatto il salto della quaglia e che ero passato al craxismo, o che ero stato stregato dalla Dc, che volevo diventare un direttore di un quotidiano nazionale.
D. Glielo scrisse il direttore di Paese Sera, Peppino Fiori.
R. E Andrea Barbato disse che volevo far pubblicità a un mio libro sul Pci. In realtà?
D. In realtà?
R. Mi fregavo le mani: col personaggio del «Dimezzato», giornalista sensibile al potere, avevo colto nel segno, a sinistra come nei filodemocristiani.
D. Rischiò anche molto quando finì per rompere anche ai terroristi. Oltre agli articoli, alla fine degli anni ’70, lei scrisse un libro implacabile, Storie italiane di violenza e terrorismo, che ne denunciava minuziosamente le nefandezze. Finì per essere uno dei tre giornalisti che la Brigata 28 Marzo aveva scelto di uccidere.
R. È vero. Un altro era Marco Nozza, del Giorno. Non lo trovarono perché era sempre a Torino, a seguire un processo. L’altro ancora era Walter Tobagi: e lui lo ammazzarono.
D. I terroristi, Marco Barbone e Paolo Morandini, racconteranno poi al giudice i suoi pedinamenti, descrivendo minuziosamente il suo cane. Che effetto le fece scoprire d’essere stato a un passo dalla morte?
R. Lo seppi tempo dopo, leggendo i verbali sull’Espresso, documenti che secondo me aveva passato Bettino Craxi, molto colpito da quell’omicidio. Ero a Repubblica, allora, e il mio collega Gianni Rocca, vicedirettore senior, mi portò una copia staffetta del settimanale.
D. Ebbe un brivido freddo lungo la schiena?
R. Mi toccai le balle, lo confesso. In seguito ricostruii che mi salvai perché ero a casa, a Milano, da un paio di giorni per una brutta influenza, ma una domenica mi telefonò Eugenio Scalfari, dicendomi che anche lui era a letto e Rocca pure: «Se non vieni tu, domani, della direzione non ci sarà nessuno». Ed io, che stavo già un po’ meglio, la mattina dopo, anziché portare fuori il cane, andai all’alba a Linate.
D. Paura, no?
R. Mah, quando si è giovani, non ci si preoccupa troppo e si è un po’ fatalisti. C’era il giornale da fare, c’era da scrivere. No, non ho avuto paura.
D. Però anche a Repubblica cominciaste a prendere qualche contromisura.
R. Ci provammo. Tramite Carlo Caracciolo, un giorno arrivò in piazza Indipendenza a Roma, la sede del quotidiano, un ex-colonnello dei Carabinieri, che guidava la sicurezza della Fiat. venne a fare una consulenza, diciamo.
D. Nel libro, il racconto è esilarante, a un certo punto, quello si congedò dicendo che eravate indifendibili.
R. Le racconto allora un particolare che nel libro non c’è.
D. Prego.
R. L’ufficiale disse a un certo punto. Aspetti, com’è che disse? Adele, come disse?
Si sente Adele Grisenti, ex-sindacalista Cgil, scrittrice, sua compagna da 25 anni, e anche preziosa collaboratrice dei suoi libri, rispondergli dall’altra stanza: «Randomizzareee».
A ecco, sì. Il carabiniere disse che l’unico elemento di difesa contro gli attentati era «la ran-do-miz-za-zio-ne». E Scalfari sbottò: «E che cazzo vuole dire?».
D. E il colonnello?
R. Pazientemente, ci spiegò che, nel gergo informatico, significava prendere dei dati a caso da una memoria. E che dovevamo fare altrettanto, coi nostri orari, rendendoli sempre un po’ casualmente variabili. Ci fece l’esempio dell’Avvocato che, un giorno dormiva a Villar Perosa, un’altra volta a Milano, un’altra a New York, un’altra ancora in un luogo che neppure loro sapevano.
D. E voi?
R. Scalfari disse che noi avevamo la bottega da mandare avanti e io e Rocca gli spiegammo come funzionava il giornale: che alle 8 arrivava una segretaria di redazione che, per inciso, era il più bel culo di Repubblica...
D....per inciso.
R. E poi che alle 10.30 si faceva una prima riunione, quindi alle 12 una post riunione, e che, nel primo pomeriggio, si esaminavano i «piccolini», ossia le pagine in formato ridotto. E così gli dettagliammo tutta l’articolata giornata di Repubblica. A quel punto, l’ex-colonnello s’alzo in piedi e, sistemandosi i polsini d’oro della camicia, disse: «Signori, il mio parere è che siete indifendibili».
D. Ma poi arrivò una macchina blindata da corso Marconi.
R. Esatto, un’enorme macchina targata «Cn» ossia Cuneo, cosa che suscitò i lazzi della frazione sudista della redazione (ride).
D. E come la usavate?
R. Eh, eh, non si trovava chi la guidasse. Rolando Montesperelli, bravissimo segretario di redazione, fece un incontro con quattro o cinque commessi: «Chi vuol guidare la nuova macchina?». Nessuno si mosse, tranne uno, giovane e piccoletto, che fu arruolato. Andava a prendere Scalfari al mattino.
D. Scalfari che, fino a quel momento, girava con una Cinquecento scassata.
R. Bravo, vedo che ha letto. Lo accompagnava e lo riportava. Poi un giorno, siccome era uno cui, perepepè, piaceva correre, ha bruciato uno stop, andandosi a schiantare contro un mezzo dell’Atac, per fortuna vuoto, dividendolo in due. E addio macchina blindata.
D. Fine della protezione?
R. No, mettemmo su un paio di «guardianoni» armati, che andavano a prendere il direttore, poi Rocca, quindi me in albergo e poi, a sera, facevano il percorso inverso. Però, la cosa buffa è che mica ti scortavano fin dentro?
D. Ah no?
R. Macché, giunti al Raphael, io vivevo lì, ti dicevano: «Dotto’ è arrivato». E poi mi toccava un’altra punizione.
D. Cioè?
R. Mi beccava Craxi, che stava lì, e che, quando arrivavo io, aveva già cenato. E mi rompeva le balle tutte le volte.
D. Beh, a un rompiscatole toccava, talvolta, qualche rottura.
R. Era sempre la solita storia: «Fermati, Giampaolo, (e qui Pansa imita il vocione del leader Psi, ndr) che ti devo raccontare cosa combinano i tuoi colleghi». Perché ovviamente c’era sempre qualche problema con Repubblica. E io lo supplicavo: «Bettino, fammi andare a cena». Ma lui insisteva: «No, no, prima devi ascoltare».
D. A proposito di quel giornale, che è stato tanta parte della sua carriera, il capitolo dedicato al «monarca» Scalfari è abbastanza affettuoso.
R. È un genio, anche se poi, invecchiando, si è un po’ indurito e anche Repubblica è diventata una caserma cuneese, grazie a Ezio Mauro. D’altra parte Eugenio aveva in mente una cosa sola: fondare un giornale che diventasse il primo quotidiano d’Italia. È divenuto il solo obiettivo esistenziale, a parte qualche donna qua e là. Il suo è stato un miracolo della volontà, non solo dell’intelligenza. Un uomo dotato di una capacità di lavoro enorme e poi di una dote che ho capito solo alla fine.
D. Vale a dire?
R. L’astuzia del comandate.
D. Per esempio?
R. Per galvanizzare la truppa, nella riunione del mattino in cui andavano i capi servizio ma alla quale, di fatto, potevano accedere tutti, apriva il vivavoce quando parlava coi personaggi della politica, da Enrico Berlinguer a Ciriaco De Mita. E tutti si sentivano parte di un grande progetto.
D. Avrà avuto anche le sue ossessioni?
R. Una era certo l’abitudine a scrivere, nero su bianco, le disposizioni che dava. Non aveva fatto il militare, ma questa cosa di appuntare gli ordini era innata. Ricordo che, una volta, essendo andato nel bagno degli uomini, era rimasto scandalizzato dalle condizioni di scarsissima igiene in cui erano tenuti, mentre quelli delle colleghe erano perfetti.
D. E quale ordine impartì?
R. Vergò una circolare intitolata «Dei cessi del volto umano», in cui diceva: «Persino il mio pisello s’è vergognato». Un collega che poi, purtroppo, è morto tragicamente?
D. Carlo Rivolta?
R. Esatto, lui, la mandò a Lotta Continua, che la riprodusse integralmente, pensando di prenderlo per il culo, ma in realtà facendogli un encomio solenne: il direttore sapeva occuparsi dei bagni.
D. Sempre per restare a Repubblica, anche il capitolo dedicato all’Ingegnere, ossia all’editore Carlo De Benedetti, parte positivamente, ma chiude un po’ risentito.
R. Chiudo ricordando le cose andò a dire ad Antonello Piroso, nel 2010, durante un convegno organizzato da Enrico Letta e cioè che «sapevo di aceto», che ero incattivito perché avrei voluto dirigere l’Espresso.
D. Eppure l’Ingegnere, come lei scrive, quando gli inviò un fax dagli uffici degli Angelucci, gli editori di Libero, per dimettersi da Repubblica, la volle incontrare, confidandole una serie di dubbi, anche pesanti, sullo stato del giornale.
R. È vero. Ma io aveva scritto che era intenzionato a scendere in politica e la cosa l’aveva fatto terribilmente arrabbiare. E figurarsi se poi avessi voluto fare il direttore de L’Espresso: non ci ho mai pensato e poi, a giudicare da come sono stati trattati i vari direttori che si sono succeduti, meglio così.
D. Chiude quel capitolo dicendo che lei, però, non serba rancore e che, anzi, le dispiace di saperlo sotto processo per l’amianto in Olivetti.R. Un processo difficile, io vengo da Casale Monferrato, dove c’era l’Eternit, e la gente muore ancora. Ma è vero: io sono sereno, anzi, invecchiando, a differenza di tanti che diventano stizzosi, mi sono ammorbidito e non ce l’ho con nessuno.
D. Non come quando lasciò l’Espresso di punto in bianco, per una lite con Giovanni Valentini.
R. Fui impulsivo. Non mi ricordo neppure qualche fosse il motivo del contendere, forse qualcosa sulla responsabilità dei giudici. E poi Valentini mi voleva bene.
D. Non ce l’ha neppure con gli storici che l’hanno bistrattata dopo Il Sangue dei vinti?
R. Figuriamoci.
D. Eppure hanno scritto cose pesanti su di lei, mentre Flores D’Arcais, che non era una storico ma ha inventato MicroMega, nel 2004, comprò una pagina di Repubblica per additare al pubblico ludibrio democratico lei e altri giornalisti «revisionisti».
R. Eh, non una pagina, ma mezza, perché forse erano un po’ tirchi. In quarant’anni avevo visto di tutto, ma non buttare soldi per pubblicare un elenco di appestati da evitare. Comunque Il sangue dei vinti è stata la mia più grande inchiesta.
D. In pratica inventò un genere, seminando indignazione.
R. Quel libro ha venduto più di un milione di copie, si rende conto? Eppure, con Adele, abbiamo fatto una cosa di una banalità sconcertante.
D. Beh, non così banale, Pansa.
R. Di quei temi mi sono se sempre occupato, sin dalla tesi di laurea, che fu pubblicata da Laterza. C’era una cosa a cui non mi arrendevo: che tutta la storia finisse col 25 aprile 1945, dopodiché arrivano i titoli di coda del film, o la pubblicità. E quello che ho scoperto è stato terribile e continuano ad arrivarmi le lettere di figli e nipoti che mi dicono: «Pansa, nel suo libro non c’è la storia di mio padre/nonno, gliela racconto». Trovo ancora persone che mi abbracciano: l’altro giorno, a Siena, in ospedale, lo ha fatto un chirurgo, quando mi ha riconosciuto.
D. A Reggio Emilia, quel giorno con Aldo Cazzullo, poco mancò la menassero.
R. Ci andammo vicini. La cosa che faceva incazzare l’antifascismo militante era che fossi un giornalista di sinistra, o considerato tale per i giornali in cui scrivevo.
D. E non lo era?
R. Per la verità sono stato sempre un qualunquista, anzi no, un po’ come il grande Claudio Rinaldi, che ho avuto come direttore a Panorama e all’Espresso, un anarchico pacifico.
D. Questa è un’autobiografia, seppure scritta con grande levità, e le devo chiedere se lo rifarebbe.
R. Certo. Rompere scatole è stata sempre la mia cifra professionale. Anzi l’idea di questo libro sa chi me l’ha data?
D. Me lo dica.
R. Il nostro premier, Matteo Renzi, quando ha cominciato a chiamare «gufi», non solo gli avversari politici, ma anche i giornalisti che criticavano il suo governo, gli errori, le balle dello storytelling. E anche io mi sono chiesto se sono e se fossi stato un gufo.
D. Che risposta s’è dato?
R. Sì, sempre. E, dinnanzi a tutta questa retorica giovanilistica,? Quanti anni ha, lei, Pistelli?
D. Cinquantadue.
R. Un ragazzino. Però io faccio il giornalista da 55, eh. Sono il più vecchio in attività, dopo Scalfari che, a 92 anni, ogni sabato, si mette lì a scrivere quello che scrive. Ma, tornando a me, sono stato sempre un gufo: ho scelto sempre di andare dove gli altri non andavano. «Pansa, durerai?», mi chiedevo, «Avrai fortuna o no?». E ho scelto di fare come m’aveva consigliato sempre Vittorio Gorresio.
D. Lo conobbe negli anni de La Stampa.
R. I primi. Quando una volta, «Gidibi», Giulio De Benedetti, il direttore, mi mandò a Roma, dicendomi un po’ pomposamente: «Per premio, lei andrà a conoscere Gorresio», (e qui imita l’alterigia debenedettiana, ndr).
D. Grande personaggio, Gorresio.
R. Viveva a piazza Navona, non lontano dalla casa di Indro Montanelli. Allora era effettivamente una grande firma. Me lo ricordo bene: capelli all’umberta e erre arrotata. Mi disse: «Pansa vai dove non vanno gli altri e attacca sempre il governo in carica». Lui, per esempio, aveva preso di mira Fanfani, che voleva fare il presidente della Repubblica, contando sul sostegno della Fiat e dell’Eni di Enrico Mattei.
D. A un signore di 80 anni, che racconta la realtà da sempre, non possono non chiedere se i tempi che viviamo, così livorosi, non gli ricordando quelle stagioni dell’odio.
R. Non frequento il web, non conosco Facebook, e so che là sopra si esagera. Per esempio, giorni fa, hanno coperto d’insulti questo povero ricercatore che è morto in Egitto.
D. Guido Regeni.
R. Esatto. Però queste violenze restano verbali e, le assicuro, fanno ridere in confronto a quello che abbiamo passato.
D. Mi ha colpito, nel capitolo che dedica alla morte del commissario Calabresi, il racconto della moglie, Gemma Capra, che esce dall’obitorio?
R. ?fra due ali di giovani che cercano anche di sputarle addosso. Sissignore, c’è stato anche questo. Per questo sono ottimista sulla crisi.
D. Spieghiamolo?
R. Quando ero giovane, ero forte e cinico, e mi ripetevo che non dovevo emozionarmi troppo per raccontare le cose. A ottant’anni mi preoccupo, ma dico che, se abbiamo quella stagione, il terrorismo, supereremo anche questo.
D. E cosa farà Pansa nei prossimi vent’anni?
R. Sto scrivendo un altro libro per la Rizzoli, ma non le posso dire di che si tratta.
D. Discrezione comprensibile. E negli altri due decenni, che vuol fare?
R. Morirò prima, anche se sono in gran forma.
D. Le fa paura, la morte?
R. No, non ho paura della morte, spero solo che venga rapidamente, quando sarà. Mi spiace molto dare un grande dolore ad Adele.
D. Alla fine di un capitolo, lei scrive: «L’unica mia speranza è che il potere dei poteri, il Padreterno, mi consenta di andar avanti ancora per un po’ di tempo, senza dare troppo disturbo alle persone che mi amano». Lei è credente?
R. No, ahimé. Sono stato battezzato, ho fatto la prima comunione e la cresima. Ho pure fatto il chierichetto in duomo, a Casale, e mi piaceva accompagnare il prete a benedire le case, ché si portava a casa qualche mancia. Ma non credo, mi ritengo piuttosto un agnostico. Ma se c’è un Dio?
D. Se c’è un Dio?
R. Mi manderà in purgatorio perché non ho mai odiato nessuno e tanto meno gli ho sparato.
D. I gufi non vanno all’inferno.
R. Nooo, per carità. Metteremmo in discussione tutta l’organizzazione, una critica continua. Per questo il Padreterno al massimo ci manda a purgarci dei nostri errori.