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 2016  febbraio 07 Domenica calendario

Tutte le espressioni uscite dalla bottega del barbiere

In barba a tutti i barbosissimi dizionari l’hanno fatta qualche anno fa i morbidi Barbapapà, piazzando tra barbato e barbecue il loro barbatrucco. Morbidi e dolci, i Barbapapà, visto che in francese (la loro lingua madre) la barbe à papa è anche lo zucchero filato. «Resta di stucco, è un barbatrucco» e voilà, rossinianamente: «La ran la lera/ la ran la là». 
Tantissime sono le parole e le espressioni che, uscite dalla bottega del barbiere, sono entrate nella lingua di tutti i giorni. In molti dialetti il barba è lo zio: da lì viene il nome familiare del barbagianni, che – detto di una persona – non è esattamente un complimento. Come non lo sono barbone, barbogio e barbino o i più antichi barbalacchio e barbacheppo, che indicavano uno sciocco, un buono a nulla. Ingenui, per ragioni anagrafiche, sono stati sempre considerati gli sbarbatelli; ma negli anni Settanta del secolo scorso c’era chi – come gli Skiantos – si struggeva per le sbarbine : «Ma l’amore di una sbarba/ yeah yeah yeah/ mi fa andare giù di testa»… («ah che bel vivere,/ che bel piacere/ per un barbiere/ di qualità»). 
Fuori da una barberia, far barba e capelli più che una promessa è una minaccia, come il pelo e contropelo. Ma mi fa un baffo, potrebbe rispondere qualcuno. Anche la spiacevole prospettiva di una lavata di capo può essere rovesciata – proprio quando sembra non esserci scampo – lasciandola sciogliere nella schiuma di uno shampoo: «Scende l’acqua, scroscia l’acqua calda, fredda, calda... giusta!». L’importante, come ricordava Gaber, è trovare la temperatura; magari canticchiando sotto la doccia: «Miglior cuccagna/ per un barbiere/ vita più nobile/ no, non si dà./ Rasori e pettini,/ lancette e forbici/ al mio comando/ tutto qui sta». 
Fare la barba al palo sembra significasse, in origine, spostare più in là i paletti che segnavano il confine tra due terreni. Poi Bruno Pizzul ne ha fatto un’espressione calcistica paragonabile al «quasi goal» di Niccolò Carosio: quando per un pelo la rasoiata non entra in rete. Passa a fil di palo, appunto, lo pettina. E per alcuni è una gioia, per altri un peccato: tanto più se si trattava di una spettacolare sforbiciata, come quella che Carlo Parola fece in un Fiorentina-Juventus del 1950 e ancora adesso campeggia sugli album di figurine. «Parole, parole, parole», già: «La ran la lera/ la ran la là/ tutti mi chiedono,/ tutti mi vogliono,/ donne, ragazzi,/ vecchi, fanciulle,/ qua la parrucca…/ presto la barba». 
In passato, si son viste barbe di tutti i colori: Barbarossa, Barbanera, Barbablù; e anche colori ispirati alle barbe, come quel barbacosacco (una sorta di color tabacco) di cui parla in una sua lettera Leopardi. Nella lingua popolare, a essere piena di barbe è la natura tutta: la barba di becco è un’erba di prato, la barba di bosco un lichene che cresce sugli alberi, la barba di cappuccino un’insalata, la barba di capra un fungo, la barba di Giove un arbusto. Alla barba devono il loro nome anche le barbabietole, da cui nell’Ottocento si prese a estrarre l’acido dei barbiturici. E allora buonanotte, proprio come alla fine del dialogo tra il Conte e Fiorello nel nostro Barbiere di Siviglia : «Più di suoni, più di canti/ io bisogno ormai non ho»/ «buona notte a tutti quanti/ più di voi che far non so». 
Resta di stucco: è trucco e parrucco, come si dice nel mondo dello spettacolo per indicare la preparazione di qualcuno che deve andare in scena. E ancora oggi si va dal parrucchiere, anche se la parrucche non sono più d’uso generale come avveniva secoli fa. Già dalla fine del Settecento, d’altronde, il parruccone è una persona vecchia di età e di idee, dai discorsi noiosi e magniloquenti. «Che barba!» avrebbe detto Sandra Mondaini, mulinando le gambe sotto le coperte. Giusto: meglio darci un taglio.