ItaliaOggi, 9 febbraio 2016
Gli Agnelli vogliono uscire dal Corriere. Il tema non è la morte dei giornali, ma la natura del ceo-capitalism
Dagospia (il 21 gennaio scorso) aveva pubblicato uno suo quasi-scoop (visto che non è stato ancora né smentito né confermato) sull’uscita degli Agnelli dalla loro ultima proprietà italiana, la partecipazione nel Corriere della Sera. Su di essa (anziché sollevarsi un dibattito) è subito calata una spessa coltre di silenzio. Solo Il Foglio del 5 febbraio scorso l’ha ripresa con un pezzo di Giuliano Ferrara che definisce il quasi-scoop «una strana notizia, vera e rilevante ma avvolta in un velo di irrealtà e quasi di anacronismo». Senza avere, sia chiaro, alcun elemento oggettivo per valutare lo scoop, io ci credo, così la motivazione di uscire dall’italico nazional-popolare per farsi anglosassoni.
Lo capiremo presto, se venderanno gli ultimi due asset italiani, questi sì nazional-popolari (Juve e Villa Frescot), se poi consolideranno Fca in Gm (per loro consolidare significa vendere), il sindaco di Torino si sentirà in dovere di cambiare il nome di uno dei più grandi corsi della città: da Giovanni Agnelli ad Alfred Sloan? Torino dopo essersi liberata, senza provare emozioni, dei Savoia, farà altrettanto con gli Agnelli?
Il tema strategico non è certo la morte presunta o reale dei giornali, ma la natura del ceo-capitalism, del quale oggi tutti i business, editoria compresa, sono schiavi. A differenza del capitalismo classico in questo la proprietà è talmente diffusa che si è fatta liquida (in senso sociologico) e il ceo assume le vesti di manager e proprietario facente funzione. Ovvio, non sono manager ma deal maker, quindi incapaci di gestire secondo le modalità classiche del management: «innovazione-sviluppo prodotto- sviluppo rete-etc.» con garanzie di competitività nell’alveo delle leggi di mercato. Così, si limitano a stressare la strategia delle economie di scala, per garantire risparmi sugli investimenti e sui costi, procedono a successive fusioni aziendali, a volte, talmente contro natura, da identificarsi con il losco utero in affitto. Immagino che lo stesso, presto succederà con i giornali.
Il loro destino lo vedo segnato, pur non credendo alle tesi catastrofiste oggi prevalenti. È evidente che il ceo-capitalism, essendo al contempo tavola della legge e tavola pitagorica del potere, pretende che i grandi comparti di business, pubblico e privato, siano focalizzati per raggiungere un modello duale, stile Airbus-Boeing, ove la competizione sia a priori esclusa. A chi fosse interessato fare paralleli, suggerisco studiare l’interessante processo di concentrazione-fusione del business delle birre. Dopo i recenti consolidamenti, sono rimasti i marchi, le etichette che ci ricordano la nostra giovinezza, ma il liquido è diventato lo stesso, stesse le reti distributive, stesse le politiche prezzi: solo meno addetti, lavori più poveri, minor qualità.
Lo stesso avverrà per i giornali, rimarranno i loghi delle grandi testate, ma via via, raschiando il fondo del barile per ricuperare costi, praticheranno centralizzazioni selvagge, osceni maquillage, il marketing si farà estremo, soprattutto staranno alla larga da qualsiasi gusto o tendenza appena un po’ radicale. Il giornale non sarà più il nobile portatore di libertà, ma un prodotto patinato di bell’aspetto, ma con la stessa dignità di una lattina di birra. Questi processi di successivi consolidamenti, nel caso delle birre, hanno fatto nascere, di contro, molte birre artigianali. Avverrà lo stesso per i giornali?
Da sempre compro Repubblica, Corriere, Stampa, Sole, ma da molti anni, più le pagine aumentano, più mi limito a sfogliarli, pilucco qualche pezzo, immagino giovani colleghi alle postazioni web costretti a un frenetico «copia-incolla di agenzie» che li trasforma in autentici brasseur del Nulla. Cerco, con più giornali, di farne uno, non ci riesco, non mi trasferiscono più emozioni, neppure suggestioni. Queste le trovo ancora su Italia Oggi, sul Foglio, sul Fatto, sul Corriere del Ticino: si capisce che dietro questi ci sono redazioni minuscole ma vive, idee, coraggio, sacrifici, ma per alcuni, dai loro siti si intuisce che, seppur lottando, stanno per gettare la spugna, e allinearsi al potere.
Sono due mondi sempre più diversi: l’uno è un passato glorioso dal futuro ancillare, l’altro al momento è in crisi, ha ovvi limiti di investigazione giornalistica, quindi di crescita, ma almeno una speranza di futuro la si intravede. Agli uni e agli altri, in amicizia, brandendo una Strong Dark Belgian Ale, dico: Prosit!