La Stampa, 9 febbraio 2016
Processo alla Federal Reserve
«È meglio avere un po’ di aritmia o un battito nullo?». È questo l’interrogativo che economisti e operatori pongono, mutuando un esempio proprio della cardiologia. Se le spinte inflazionistiche sono il battito del cuore, «è forse meglio un po’ di aritmia, si va dal medico e la si cura. Se il cuore si ferma si rischia il collasso e il decesso». In un quadro di questo genere la scelta di dicembre della Federal Reserve di alzare i tassi di un quarto di punto potrebbe essere stata un azzardo? Sembrerebbe di sì a guardare il quadro economico-finanziario: dopo un breve periodo di aggiustamenti, le turbolenze sono riprese, le stime di crescita globale vengono tagliate, le Borse ripiombano in rosso, il barile diventa di nuovo «mini», e l’euro si indebolisce sul dollaro.
Da un giro di consultazioni con gli operatori di Wall Street capiamo che sono tre gli elementi di rischio. Le preoccupazioni sui prodotti derivati con scadenza a breve, in particolare i «credit default swap». C’è poi l’economia reale: gli Usa si trovano davanti a un effetto dicotomico, il calo del petrolio pesa sul comparto e sul suo indotto, e la quasi parità del dollaro verso l’euro non aiuta le esportazioni, pesando sui settori che potevano trarre vantaggio dal mini-barile.
Allora ci si chiede, ma questo rialzo di 0,25 punti base doveva proprio giungere ora? «Gli americani non avevano alternative, si doveva dare un segnale, una scossa indicativa di ripresa, e poi c’è il bilancio della Fed che è triplicato e si deve procedere a un alleggerimento», ci dicono fonti di Washington. Dall’altra però ci sono i Paesi emergenti che hanno problemi strutturali, una sorta di «vulnerabilità asiatica», che dipende dalla volatilità cinese, ma non solo. Si tratta quindi di un principio di «perfect storm» col rischio di una conflagrazione.
«Il punto non è tanto su cosa si è fatto, ma su cosa si farà», avverte Allen Sinai, guru di Wall Street e fondatore di «Decision Economics». «Janet Yellen ha dovuto alzare i tassi, ma non deve farlo più, almeno sino alla seconda metà dell’anno», dice Sinai secondo cui il terzo e ultimo fattore critico è che ricavi e profitti delle aziende Usa sono in declino e perciò si taglia in spese e assunzioni, col rischio di indebolimento dell’economia Usa e globale. Tutto questo si traduce in una «deflazione e incapacità di uscire da tassi negativi, ovvero il mondo è incapace di creare inflazione», di riportare il battito al livello di normalità. Livello che per quanto riguarda gli Usa dovrebbe almeno essere del 2% visto che il target del tasso di interesse nominale (inflazione + crescita reale) è tra il 4% e il 5%. Il tutto attraverso un cammino graduale, ma che non era rinviabile.
Per l’Europa l’effetto è duplice, un differenziale sui tassi aiuta a mantenere basso l’euro, ma crea spirali di tensione su altre piazze, specie tra gli Emergenti, con ripercussioni sullo stesso Vecchio continente che ha stretti legami con l’Asia. «In Europa come nel resto del mondo c’è bisogno di stimolo nelle politiche economiche e monetarie – avverte Sinai -. Il mondo ha bisogno di una giusta inflazione, questa si può creare “stampando moneta” con politiche espansive e con stimoli, maggiore spesa e minore tassazione». Il Nobel per l’economia Eugene Fama rilancia: «La Fed ha alzato i tassi a breve, ma quelli a lungo non hanno fatto seguito, il problema è altrove». «In Europa pochi pagano i benefit delle vecchie generazioni» avverte il professore dell’Università di Chicago. E tra gli Emergenti? «C’è la questione della scarsa trasparenza cinese, quella è una grave patologia».