La Stampa, 7 febbraio 2016
I 150 anni della Stampa
Il primo numero de «La Stampa» è uscito il 9 febbraio del 1867 dalla tipografia «G. Favale e C.» di via del Gambero 1, oggi via Bertola 21, a Torino. Il giornale si chiamava allora «Gazzetta Piemontese», e lo aveva fondato un grande e celebrato personaggio dell’epoca, Vittorio Bersezio.
Scrittore e commediografo, abitava un’ampia casa padronale sulla collina di Moncalieri, circondata da alberi e giardini. Ogni giorno, estate o inverno che fosse, si alzava alle 5 del mattino. D’inverno, trovava ghiacciata l’acqua della catinella in camera e doveva spezzare il ghiaccio per lavarsi. Poi si metteva una coperta intorno alle gambe e si sedeva vicino alla stufa che sua moglie, Laura Chiappussi, scrittrice anche lei con lo pseudonimo di «Chiara», aveva appena ravvivato. Stavano lì insieme per quasi tutto il giorno, uno vicino all’altra.
Allora non c’erano macchine per farlo e scrivere era una cosa lunga e complicata. Si scriveva sul foglio, poi si correggeva, poi si riscriveva tutto in bella copia e magari se ne scriveva un’altra copia per conservala. Ci voleva tempo e bisognava dunque alzarsi presto. Bersezio traduceva gli autori francesi e creava commedie dialettali, la più famosa delle quali, «Le miserie ‘d monssù Travet», è diventata nel 1945 un film di Mario Soldati, ed è rappresentata ancora oggi. Il nome del personaggio gli era venuto in mente guardando i travicelli che sostenevano il soffitto della sua casa di campagna: da soli non valevano niente, ma insieme portavano quel grande peso. Per molti anni, i «travet» di tutta Italia si sono radunati nell’ultima domenica di agosto a Peveragno in provincia di Cuneo, dove Bersezio era nato nel 1828, per condividere con dignità le pene del loro grigio dovere, compiuto con onestà in cambio di un magro stipendio.
Bersezio aveva fondato la «Gazzetta Piemontese» con l’avvocato e stampatore Casimiro Favale perché ce n’era bisogno. Nel 1864 la capitale era passata da Torino a Firenze e la città avvertiva i segni del suo primo declino. Allora come oggi, il Comune aveva fatto appello agli «industriali esteri», perché venissero in città in cambio di agevolazioni. Ma era la politica il vero problema. La Destra si era scissa a Torino dando vita alla Associazione Liberale Permanente, alla quale Bersezio aderiva. Il nuovo giornale rifletteva le esigenze della media borghesia, e vedeva nel Piemonte delle nuove industrie tessili e meccaniche un modello per lo Stato nazionale, che coniugasse il liberismo cavouriano con uno sviluppo democratico più attento alle esigenze dei cittadini.
Bersezio era bravissimo a inventare slogan. Pare che fosse suo anche «bastian cùntrari», un modo per dire che ai torinesi – anche qui, allora come oggi – non va mai bene niente. Per la «Gazzetta» ideò «Frangar non flectar»: il giornale si sarebbe piuttosto spezzato, ma nessuno l’avrebbe piegato.
L’abbonamento costava 22 lire, 33 a Roma e in Svizzera. Su quattro pagine, una e mezza era di «inserzioni legali», con gli orari dei teatri e degli eventi sociali e gli annunci economici di chi voleva vendere «cavallo baio-oscuro dell’Holstein». C’era una sezione per i «Dispacci elettrici privati», i primi telegrammi dell’Agenzia Stefani. Il 78% degli italiani non sapeva leggere, ma in Piemonte la percentuale scendeva al 57%. Il 30 aprile del 1869, redattori e tipografia si trasferirono in Piazza Solferino angolo via Bertolotti, dove ancora c’è una targa che ricorda l’evento e dove il giornale sarebbe rimasto per 65 anni. Tra le sue commedie, Bersezio preferiva «La viòlensa a l’a sempre tort» e voleva essere ricordato solo come un uomo buono e perbene, interessato alle lettere e ai destini dello Stato. E forse non ha mai avuto la consapevolezza di quanto quel piccolo seme, che aveva piantato al numero 1 di via del Gambero, sarebbe cresciuto negli anni futuri.
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Nel febbraio del 1867, quando per divertirsi a Torino si poteva scegliere fra il circo prussiano dei fratelli Godfroy, la «Norma» di Bellini in scena al Regio e uno spettacolo di marionette al Gianduja, il marchese Vivalda metteva in affitto un «alloggio», Buttigliera, provincia di Asti, cercava un nuovo segretario comunale, e il dottor Aymini proponeva operazioni «brevi e di sicura riuscita» per i calcoli alla vescica.
Eccoli, sobri e incolonnati uno sull’altro, gli annunci pubblicitari apparsi sul primo numero della «Gazzetta Piemontese», il 9 febbraio. In quegli anni la Rivoluzione industriale velocizzava l’Inghilterra, e non solo, e sui giornali facevano capolino gli «antenati» della pubblicità vera e propria.
Allora come oggi, l’ultima pagina era a loro dedicata. Non certo con foto a colori o slogan, come ai giorni nostri. Solo annunci, all’inizio, posti dopo le notizie commerciali (le Borse) e prima di atti giudiziari e inserzioni legali.
Raccontano di un Paese a metà fra industrializzazione e tradizione agricola. Alcuni annunci si limitavano a poche righe scritte, altri aggiungevano un disegnino. Tra i più curiosi quelli di vendita di un cavallo «baio-oscuro dell’Holstein, addestrato alla sella», e di un «bel pappagallo ben ammaestrato», che si poteva comprare «a condizioni vantaggiose». Gli interessati dovevano rivolgersi alla segreteria del giornale.