Corriere della Sera, 7 febbraio 2016
«Voi correte tanto e io parlo poco di tattica». Ma il patto di Ranieri con il suo Leicester finisce con una gran mangiata
Leicester non arriva a 300 mila abitanti, è la decima città inglese, tredicesima nel Regno Unito. Non è bellissima, piove per molti giorni, l’umidità ieri era al 93%, il mare del Nord è vicino, tira spesso un vento freddo. Ha qualche monumento, come il Vecchio Castello e la Torre dell’Orologio, ma nel mondo tutti vi diranno che Leicester è la sua squadra di calcio. In quasi 140 anni il Leicester non ha mai vinto un campionato, solo tre coppe e sei campionati di B. Ora è in testa alla classifica dall’inizio, senza un giocatore importante, contro avversari che non l’hanno mai degnata di uno sguardo. E un vecchio tecnico italiano, Claudio Ranieri, che nessuno ha mai ignorato, ma pochi hanno amato per quello che era diventato, un formidabile maestro di calcio normale. Nel calcio il problema è la media a lungo termine. Non conta se arrivi terzo il primo anno di carriera, conto cosa hai fatto nei venti successivi. È lì che è nascosto il dettaglio. Ranieri ha allenato chiunque e dovunque (Napoli, Fiorentina, Roma, Inter, Juventus, Valencia, Grecia, Chelsea, Atletico Madrid). È arrivato a una semifinale di Champions quando il Chelsea era una squadra normale, ha portato il Cagliari dalla C alla A, è arrivato 2° e 3° in Italia. Ha vinto poco, ma c’è sempre stato. Ora è arrivato il Leicester, una classica storia di calcio nell’Inghilterra dove tutti sono ricchi. Una città piccola, una squadra che potrebbe essere l’Atalanta o il Chievo, un attaccante, Vardy, che la mette dentro comunque si giri. Qualcosa di miracoloso per chi crede ai miracoli. Per Ranieri è stato tutto quasi automatico.
«La stagione precedente avevano fatto un ottimo finale, correvano molto, davano l’idea di star bene. Ma ho capito che i giocatori avevano paura del tatticismo italiano. Il calcio di un italiano vuol dire questo, tattica, cercare di impossessarsi della partita seguendo gli schemi dell’allenatore. Parlare tanto. Non mi sembravano convinti, nemmeno io lo ero. Ho ammirazione per chi costruisce moduli di gioco nuovi, ma ho sempre pensato che un buon tecnico debba impostare la squadra sulle caratteristiche dei suoi giocatori».
E allora? Cosa successe?
«Dissi che mi fidavo di loro, che avrei parlato pochissimo di tattica. Per me l’importante era che corressero tanto».
E i ritiri, la preparazione atletica?
«Secondo me hanno meno importanza in Inghilterra. Qui si allenano con grande intensità. E le partite sono sempre molto combattute. La mia idea è che prima di tutto i giocatori abbiano bisogno di recuperare, poi di allenarsi».
Sembra un’eresia compiaciuta.
«Forse lo è, non lo so. Credo naturalmente nell’allenamento, ma credo anche che tutto sia relativo. I miei ragazzi si allenano molto, ma non troppe volte. In Inghilterra il gioco è ad alta intensità, sfinisce. C’è più bisogno di recuperare. Noi giochiamo il sabato, la domenica è libera per tutti. Il lunedì riprendiamo in leggerezza, come i lunedì italiani. Martedì allenamento duro, mercoledì riposo assoluto. Giovedì altro allenamento duro, venerdì rifinitura, sabato di nuovo partita. Due giorni almeno fuori dal pallone. È questo il patto del primo giorno, mi fido di voi. Io vi spiego un po’ di calcio ogni tanto, voi mi date sempre tutto».
Sembra una teoria di Zeman alla rovescia...
«Non lo so e non credo sia una formula perfetta. Il calcio non ha regole universali. Conta prendere il meglio dal gruppo che hai. Qui si sentono tutti partecipi, giocar male significa tradire gli altri. Sono persone libere, consapevoli, hanno delle responsabilità. Si divertono a mantenerle, a sopportarle. Ho un giocatore che viene ogni mattina da Manchester, uno arriva da Londra. Non sarebbe pensabile in Italia, ma nemmeno in Inghilterra. A Leicester si fa perché il gruppo se lo può permettere. A volte siamo a tavola e mi spavento per quanto mangiano, mai visto giocatori così affamati. Le prime volte mi sorprendevo, poi ho imparato a sorridere. Se corrono così tanto, mangino quello che vogliono».
Di cosa ha bisogno il giocatore inglese rispetto a uno che gioca in Italia?
«Credo di divertirsi. In Italia il calcio fa fatica a essere un divertimento, credo anche ci si alleni con meno convinzione. È più un dovere. Qui c’è la forte consapevolezza di essere giovani, sani e di fare un bel mestiere. Sprecarlo sarebbe da fessi. Quando si allenano si impegnano come in partita, non ho mai dovuto riprendere uno per pigrizia. Poi vogliono tranquillità e rispetto, non li devi prendere di punta. Se vuoi far tu la prima donna non ti perdoneranno».
Pensa al Chelsea di Mourinho?
«No. Penso a quello che vedo. In Inghilterra si gioca come se fosse sempre un derby. Ho visto Milan-Inter, quella è stata una partita all’inglese. Corsa, botte, squadre un po’ lunghe, tanto agonismo, una bella partita che alla fine è scappata di mano all’Inter. Ma un calcio non italiano. Io dico sempre ai miei: cercate il vostro fuoco dentro. Un’occasione così non capiterà più. Cercate quel fuoco, non vergognatevi. E loro non si vergognano, anzi, pretendono di sognare. Lo so che non funziona sempre così, ma nessuno sa come funzioni davvero. Noi abbiamo trovato qualcosa che va da solo, dobbiamo rispettarlo fino in fondo».
Si può paragonare a qualcosa questo Leicester?
«È il risultato che ho sempre cercato, metà gioco e metà consapevolezza di un traguardo. Diamo un significato a quello che facciamo. Poco mestiere, nessuno di noi pensa sul serio di lavorare nella vita, altrimenti ci alzeremmo sempre stanchi. Alla fine della carriera da giocatore ho trovato una squadra così: era il Catanzaro di Gianni Di Marzio, di Palanca, Silipo e gli altri. Capisco non sia un grande esempio, meglio Guardiola. Ma quella era una squadra come il Leicester, un gruppo di amici che viveva insieme». (Piccolo inciso: Gianni Di Marzio dice che Ranieri per dieci anni ogni estate ha portato in giro per il Mediterraneo sulla sua barca i suoi amici di allora. E che ancora oggi, nella sua villa in Toscana, si fanno grandi cene di squadra).
Vincerà questo campionato?
«Non lo so, ma è già fantastico aver meritato la domanda. Quando sono arrivato il presidente mi chiese 24 punti entro Natale. Ne abbiamo fatti 37 o 39, non ricordo. E ora siamo ancora lassù. In un tempo in cui contano solo i soldi, credo si sia una speranza per tutti».
L’Inghilterra ha il più grande campionato del mondo, ma fa fatica a trovare suoi grandi giocatori. Perché?
«Qui hanno una grande organizzazione a livello giovanile. Hanno le accademie federali, selezionano, controllano come ti occupi dei giovani. Ogni due-tre anni danno una valutazione tecnica e in base a quella premiano. Vengono investiti un sacco di soldi, a volte nemmeno li capisco. Noi dobbiamo mettere 5-6 milioni l’anno, a parte quelli per i giocatori. Una volta che ho fatto cinque campi sportivi, che ho preso i dirigenti e il personale, costruito la struttura d’accoglienza, cosa faccio ancora? Il lavoro resta».
C’è il problema della qualità.
«Una cosa è vera. Sono inglesi, in fondo in fondo tirano di più al fisico che alla tecnica. Noi ci innamoriamo subito del mingherlino talentuoso. Il loro calcio è velocità e forza. Potenza. Quando si trovano davanti un ragazzo alto 1,90 pensano subito a un centravanti. Noi cerchiamo sempre il dieci. Ma come organizzazione sono in anticipo».