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 2016  febbraio 07 Domenica calendario

Perché lo Stato non deve vendere le opere che stanno nei magazzini?

Una lettrice ha scritto che i «gioielli di famiglia» non si vendono e quindi lo Stato farebbe bene a non vendere le opere d’arte nei magazzini. Ma nessuno le vede e nel corso degli anni si deteriorano ( mancano i fondi per i restauri perfino di quelle esposte nei musei). Allora, per fare due esempi, lo Stato non avrebbe dovuto vendere tanti immobili pubblici e neppure cedere le autostrade (sia pure in concessione). Che differenza fa?
Giuseppe Gori, Firenze
Caro Gori,
Gli immobili e molte infrastrutture sono beni funzionali. Se rispondono a una pubblica utilità, lo Stato deve vigilare affinché ne venga fatto uso corretto, nell’interesse di tutti; ma il proprietario può essere un privato o una società per azioni. Anche i beni artistici possono appartenere a privati (collezionisti, mercanti), ma quando appartengono allo Stato sono qualcosa di più di un semplice patrimonio.
Se provengono dalle collezioni delle grandi dinastie preunitarie della penisola (i Medici, i Gonzaga, gli Este, i Borbone, i Savoia) sono parte integrante della storia nazionale. Se provengono da pubblici scavi hanno un rapporto organico con i luoghi in cui sono stati riportati alla luce. È certamente vero che molte di queste opere giacciono nei depositi, ma la loro vendita presenta almeno tre inconvenienti. Il valore attribuito dal mercato può essere alquanto inferiore a quello storico e culturale. La vendita lancia al mondo un segnale che nuoce alla credibilità finanziaria del Paese venditore. Il popolo è orgoglioso del proprio patrimonio artistico e non desidera che venga venduto a stranieri.
Il caso dell’Unione Sovietica è particolarmente interessante. Quando l’Urss, alla fine degli anni Venti, mise sul mercato molte opere provenienti dall’Ermitage, fra quelle che approdarono nelle collezioni occidentali vi furono, insieme alla grande oreficeria di Fabergé, importanti esempi d’arte italiana e fiamminga. Per il regime sovietico, tuttavia, il problema era allora quello di salvare la patria del socialismo dal rischio di una bancarotta. Più tardi l’Urss, paradossalmente, tratterà l’arte religiosa russa più gelosamente di quanto avesse trattato l’arte laica dell’Occidente. Quest’ultima era giunta in Russia quando la Grande Caterina, nel XVIII secolo, aveva stretto legami personali con la cultura occidentale. Mentre le icone, anche se il regime era ostentatamente ateo, appartenevano al popolo ed erano quindi un prezioso valore nazionale.